Metafore calcistiche: eh già perché, tanto per cambiare, l’Italia è nel pallone. Matteo Renzi, ha il dono dell’imprevedibilità. Debordante. In quanto a guizzi, si crede Garrincha, ma è ben lungi da esserlo; è un fantasista, innegabile, ma lo è in eccesso, al punto da cedere alle tentazioni dei personalismi. È allergico alle consegne dei moduli, orpelli, ed è assai difficile trovargli una precisa collocazione in campo. Nessun allenatore gli può mettere le briglie e inscatolarlo negli schemi, lui fa solo di testa sua seguendo gli istinti; ama prendere palla e far tutto da solo, il gioco di squadra gli va stretto. Dribbla, scarta, inventa giocate improbabili; lanci e passaggi? Mediocri banalità, di chi non ha forza da andare oltre il dialogo. Sacrificarsi per la squadra? Non chiedeteglielo nemmeno per scherzo. A lui preme solo la “sua” partita.

Safet Susic con la maglia del Paris Saint-Germain

Di giocatori così, la storia del calcio abbonda; e nella stragrande maggioranza dei casi hanno raccolto molto meno di quanto avrebbero potuto. A memoria balza Safet Susic, jugoslavo di Bosnia, classe infinita, genietto dal talento pazzesco. Celebre per la sua finta, la kičma, con cui spiazzava gli avversari, nel 1982 doveva venire in Italia. Bizzoso e imprevedibile, firmò  simultaneamente due contratti, uno con l’Inter e l’altro col Torino; fu così che finì al Paris Saint-Germain. La sua stella brillò, certo, ma non quanto prometteva. I campioni, i fuoriclasse compiuti, quelli veri e non presunti, sono l’esatto contrario. Pelè al servizio della squadra si metteva eccome; Maradona lo stesso: El Pibe rese grandi, squadre che non lo erano; faceva, vero, ciò che gli piaceva e pareva, ma nello spogliatoio e in campo per i suoi compagni si sarebbe gettato nel fuoco. Di Johan Cruijff non parliamo nemmeno; era il motore di un macchina perfetta.

Renzi è uno di quelli, e sono tantissimi, che di talento ne hanno parecchio, ma lo mettono poco a frutto. Lo sacrificano sull’altare del proprio ego smisurato, piuttosto che metterlo al servizio del bene comune. Pro domo sua. È un peccato, uno spreco. Come tante prime donne, Matteo Renzi cede anche alle tentazioni della presunzione e della permalosità: pensa di avere sempre la soluzione in tasca, o quantomeno di estrarla dal cilindro quando vuole; in campo si sente l’uomo della provvidenza, il primo della classe. Rispedisce con sdegno le critiche ai mittenti, non ascolta gli allenatori, coi quali il rapporto alla fine non può che essere conflittuale. Quando le cose non girano, la responsabilità è sempre degli altri (Italianismo in piena regola), mai sua. Lui al massimo è un incompreso.

Pratica uno sport di gruppo, ma i connotati sono quelli degli sport individuali. Una giocata di troppo, il suo limite di sempre; ai giorni belli era Mister 40%, nel 2016 aveva in pratica già vinto la Champions, il referendum; non gli bastava, volle stravincerlo personalizzandolo su di sé. E fu punito per questo. La squadra nella quale vestiva la maglia numero 10, lo spostò allora dalla regia all’ala. Destra ovviamente; si ritrovò sempre più solo, ai margini, proprio lui che si sentiva al centro di tutto. Intollerabile. Se ne andò sbattendo la porta, mise su in fretta e furia una squadretta tutta sua fatta di servili adepti, dove poteva essere presidente, allenatore e giocatore. Roba che nemmeno Alberto Sordi nel “Presidente del Borgorosso Football Club”. Animale da palcoscenico, sotto i riflettori è tornato nell’estate del 2019, con un’invenzione delle sue, un guizzo da grande artista: mettere insieme chi si detestava, pur di non cedere il Paese nelle mani dell’altro Matteo, quello cicciuto che le buone regole della democrazia le aveva prosciugate con la cannuccia nei bicchieroni di Mojito sulle spiagge della Romagna. L’estate del nostro scontento.

Sebbene mal assortite, le squadre c’erano, ma per giocare la partita, mancava il pallone; ce lo ha portato Renzi. Diabolica intuizione. Ma quando la palla non gliela passavano quanto e come voleva lui, quando si è reso conto che il collettivo limitava i personalismi, ha interrotto tutto, e il pallone se l’è preso e portato via sulle note di Mina: «Non gioco più, me ne vado» ha detto incacchiato. Alla faccia della pandemia e della tragedia sanitaria e sociale in cui il Paese versa. Inguaribile, incorreggibile. La maggior parte degli italiani giura di non aver capito. Hanno ragione, se non per il fatto che c’è poco o nulla da capire. Lui del resto è così, prendere o lasciare. Gli anni però passano, e ancora non è chiaro cosa il fantasista di Rignano sull’Arno voglia fare da grande. Rimane questo l’arcano che lo accompagnerà per tutta la carriera. Rimarrà irrisolto, come un Safet Susic e tanti altri. Nulla di nuovo sotto il sole.