Ieri pomeriggio un violento colpo di martello alla testa ha infranto per sempre i sogni di Agitu Ideo Gudeta, la pastora trentina di origine etiope conosciuta in tutto il mondo per la sua storia straordinaria. «Ho recuperato quello che voi avete abbandonato. Sono qui per quello che voi mi avete tolto, per quello che le multinazionali hanno fatto al mio paese. Non ho sottratto niente a nessuno e ho tirato fuori le unghie e i denti per realizzare quello che ho.» Questo e molto di più era Agitu, una donna che con determinazione, passione e intelligenza aveva scelto di recuperare alcuni terreni abbandonati nella Valle dei Mocheni, in Trentino, dando vita all’azienda agricola biologica “La capra felice”: «Qui il Comune mi ha concesso in affitto un appezzamento destinato agli usi civici, gli animali pascolano, concimano la terra, danno un latte di altissima qualità e io vedo i miei sforzi finalmente premiati.»

L’azienda si occupa dell’allevamento di una particolare razza di capre, la pezzata mòchena, un tempo diffusa in Trentino e ora quasi scomparsa perché non abbastanza produttiva. Nessuno prima di lei aveva quindi pensato di scommettere proprio su quella razza, ma Agitu era fatta così: non ha mai imboccato strade facili e prevedibili. Dopo aver studiato in Italia, nel 2000 decide di tornare nel suo paese, l’Etiopia, per avviare un progetto di sviluppo in area rurale coinvolgendo diverse famiglie contadine della regione centromeridionale dell’Oromia, dove vive un terzo della popolazione di etnia oromo il cui sostentamento è sempre derivato dalla coltivazione della terra. «Dal 2000 il processo di industrializzazione si è fatto aggressivo nel nostro paese», raccontava Agitu. «È cominciato un accaparramento delle terre da parte del governo per cederle alle multinazionali straniere che le usano per coltivare cereali e monocolture destinate all’esportazione. I militari hanno cominciato a sottrarre i terreni ai contadini in modo coatto, privandoli di un bene essenziale. La terra è vita, tutto si costruisce intorno alla terra e l’industrializzazione sta portando stravolgimenti difficili da sostenere.»

Dal 2005 aveva cominciato anche a partecipare alle manifestazioni che denunciavano le condizioni di sfruttamento dei lavoratori e il land grabbing, quella nuova forma di colonialismo devastante per l’ambiente e le comunità contadine locali e che porta miseria e povertà per le famiglie etiopi. Per questo nel 2010, dopo essere entrata nel mirino della repressione militare nel suo paese, è costretta a scappare dall’Etiopia: molti suoi compagni erano scomparsi, rapiti o uccisi dal governo. L’unica via di salvezza era la fuga.

Così Agitu decide di tornare in Trentino e ricominciare da zero a immaginare il suo futuro, con il bisogno di creare qualcosa di suo, di sostenibile e coerente con la sua idea di integrazione con l’ambiente. Qualcosa che facesse del bene alla comunità. Con le prime 15 capre Agitu scopre pascoli abbandonati nelle valli trentine, li rivitalizza grazie agli stessi animali che ripuliscono l’erba in eccesso, studia e frequenta corsi per imparare ad allevare le capre e a produrre cibi e prodotti di altissima qualità, dai formaggi ai cosmetici. Al giornale Il Dolomiti aveva dichiarato: «Ci sono tantissimi terreni che non vengono coltivati in queste montagne trentine e possono diventare un’occasione importante sia per i giovani migranti, ma anche per i ragazzi italiani che stanno cercando un lavoro. Potrebbero mettersi assieme, creare delle piccole cooperative dove tutti offrono le proprie capacità, dalla forza fisica alla propensione per il marketing. È un progetto che voglio portare avanti e mi sono già messa al lavoro.»

Oggi quelle 15 capre sono diventate 180, l’azienda che ha fondato è sana ed economicamente produttiva e sostenibile. Nel giugno scorso, in piena crisi economica causata dalla pandemia di Covid-19, Agitu aveva addirittura aperto in piazza Venezia a Trento la prima “Bottega della Capra Felice”. Ma era lei il cuore pulsante di tutto questo. Lei, con la sua risata che faceva bene al cuore come il sole dell’Africa. Lei che era riuscita a farsi accettare e ben volere da una comunità notoriamente restìa alle novità: «All’inizio non è stato facile far accettare la mia idea: una ragazza, nera, che voleva avviare un’attività agricola; un’idea ben distante dalla tradizione per cui erano solitamente i figli dei contadini a creare nuove attività.»

Foto tratta dal sito “La Capra Felice”

E qualcuno negli anni aveva tentato effettivamente di fermarla con minacce, aggressioni e ritorsioni rivolte a lei e alla sua azienda e per le quali, nel gennaio scorso, un uomo è stato condannato a 9 mesi per lesioni dal Tribunale di Trento. Agitu infatti non era solo un’imprenditrice di successo: era soprattutto il simbolo di un’integrazione possibile. Ovvio e scontato che questo desse fastidio a chi non tollera il confronto con una donna forte, determinata e soprattutto felice e appassionata del suo lavoro. E per di più straniera. Dalle prime indagini sembrerebbe però che il responsabile dell’omicidio di Agitu Ideo Gudeta sia un suo dipendente, un 32enne di origini ghanesi che lavorava per lei come pastore e custode dell’azienda. Il motivo sarebbe di natura economica, a causa di uno stipendio non pagato. L’uomo, messo sotto torchio dagli inquirenti, in mattinata avrebbe confessato di fronte al magistrato le proprie responsabilità.

Se tutto ciò verrà confermato, dobbiamo necessariamente chiederci quanto abbia pesato in questa tragica vicenda il fatto che Agitu fosse una donna, e per di più una donna di successo. Chiunque l’abbia conosciuta sa bene che lei non avrebbe mai sfruttato nessuno a fini economici, quindi la motivazione di uno stipendio non corrisposto lascia molti dubbi sull’attendibilità di un movente economico che avrebbe portato l’uomo a ucciderla a martellate. Infatti, a quanto riferisce un aggiornamento dell’Ansa di poche ore fa, nel corso dell’aggressione mortale ad Agitu si sarebbe consumata anche una violenza sessuale.

Quel che è certo è che la sua morte è una perdita incolmabile non solo per la sua comunità, ma per chiunque creda nei valori che Agitu incarnava: la libertà, l’impegno, il rispetto per gli altri e per l’ambiente. E proprio un paio di mesi fa Agitu aveva ricevuto la Bandiera verde di Legambiente per la “determinazione e passione nel portare avanti un importante esempio di difesa del territorio, di imprenditoria sostenibile e di integrazione”. Come ha dichiarato ieri Noris Cunaccia, una delle più care amiche di Agitu, alla notizia della sua morte, abbiamo perso “una donna alla quale noi tutte vorremmo somigliare”.

Le altre foto a corredo dell’articolo sono tratte dalla pagina Facebook di Agitu Ideo Gudeta.

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