«Comico di scarso valore, che conduce vita miserabile in compagnie girovaghe: una compagnia di guitti». Gente gretta, meschina, dei poveracci i guitti. Li ha liquidati così Roberto Saviano i nostri stimati rappresentanti in Consiglio comunale che con un voto di maggioranza gli hanno revocato la cittadinanza onoraria concessagli nel 2008. Un voto arrivato nella serata dell’antivigilia di Natale, in una città che avrebbe ben altro di cui occuparsi visti i tempi che corrono. Un Natale per forza di cose diverso che, come ha sottolineato quel matto cattocomunista di Papa Francesco, dovrebbe indurre alla riflessione, alla solidarietà, nella sua accezione più cristiana. Parole cadute nel vuoto.

Per riflettere, la maggioranza della nostra classe politica, perché di questa si tratta, ha dunque riflettuto: ma se il risultato di cotanto esercizio mentale è ciò che ha partorito l’altra sera, non solo c’è da arrossire di vergogna, ma c’è da provar pena. Rabbia no, ma solo perché è Natale e cerchiamo di essere un po’ più buoni. Detto che non proviamo particolari simpatie per Saviano, ne apprezziamo, e molto, l’impegno e il coraggio che profonde nel denunciare malaffare e collusioni mafiose, meno l’aria da predicatore che ogni tanto assume. Ma non è certo questo il punto, conta meno di zero. Lui ha risposto, e lo ha fatto con fine eleganza e ironia. Roba che i nostri guitti non sanno nemmeno cosa sia. È nell’utilizzo di quel termine, che Saviano ha fatto centro, come Guglielmo Tell con la mela. È andato a bersaglio con chirurgica precisione in punta di penna.

Dunque, il suo peccato capitale sarebbe quello di essersi scagliato contro Salvini e Meloni. Imperdonabile atto sacrilego di vilipendio. I colonnelli stanno a Roma, a Palazzo Barbieri siedono al massimo i caporali; per ingraziarsi il Capitano, se ne sono venuti fuori con questa bella trovata promossa dal consigliere leghista Alberto Zelger, personaggio che l’arcivescovo Marcel Lefebvre al confronto era Allen Ginsberg. Lo stesso dicasi per quei Fratellini d’Italia che ora si gonfiano il petto pensando di aver onorato Dio, Patria e Famiglia e fatto così un regalo di Natale a «Sono Giorgia, sono donna, sono mamma, sono italiana». Fanfare da operetta nazionalpopolare. Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere.

Meglio non se la cavano coloro che hanno pensato di farla franca disertando il voto «perché ci sono cose più serie di cui occuparsi». Come se assistere al buon nome di Verona precipitare nel ridicolo ludibrio, non lo fosse. Gente eletta per rappresentare i cittadini e fare il bene della città, e che quando il terreno si fa scivoloso se la dà a gambe trincerandosi nell’ambiguità del politichese da Listòn. Se ci fosse ancora, quella buonanima di Roberto Puliero avrebbe di che sbizzarrirsi magari con una gag di Che la Poarina che sta in Bra preso a bacchettate dal saggio Gustavo La Pearà. Era un problema votare contro una pagliacciata come questa? Evidentemente sì. Così ai guitti si son aggiunti i mezzi guitti, che forse sono ancora peggio.

È finita 20 a 7 tra una miriade di banchi desolatamente vuoti. Come un qualunque Germania-San Marino alle qualificazioni europee. Stendere un pietoso velo? Troppo comodo. Le voci di dissenso e protesta contro un atto di dissennata e inutile tracotanza si son levate, ma non basta. Bisogna che ognuno faccia la propria parte, piccole cose: annotarsi ad esempio la data del 23 dicembre 2020 in agenda in modo che l’indignazione prenda forma e chi ha promosso e permesso questa spaccona buffonata, si trovi nelle condizioni di doverne rispondere, magari alle prossime elezioni.

Perché, va detto, si è passato ogni limite. In ballo non c’è la politica, non è un derby tra Pro Saviano e Contro Saviano, né tantomeno tra destra e sinistra, tanto ognuno un’idea ce l’ha. In ballo c’è altro, molto di più se permettete: la faccia di una città meravigliosa che è fatta da una stragrande maggioranza di gente perbene silenziosa, che deve però ora battere un colpo. Così non fosse, non domandiamoci perché la sua candidatura a capitale della cultura sia mestamente finita nei bidoni dell’Amia. Vilipesi non sono Salvini, Meloni o chicchessia. Vilipesa è Verona, da quegli stessi guitti che, spiace dirlo, ella stessa si è scelta. Ancora per molto?


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