Law and Order
Trump si presenta come il campione di ordine e legalità, ma non sembra essere colui in grado di garantirli al popolo americano in rivolta.
Trump si presenta come il campione di ordine e legalità, ma non sembra essere colui in grado di garantirli al popolo americano in rivolta.
«I am your president of law and order», sono il vostro presidente dell’ordine e legalità. Alle dure parole del presidente USA Donald Trump, alcuni lettori avranno collegato il mitico telefilm legal-poliziesco che per vent’anni ci ha raccontato di crimini e colpevoli, di come una procura illuminata riuscisse a risolvere tanti casi violenti. Ha mostrato, forse per la prima volta in una serie TV, che non sempre si vince ma anche che ci si può (e deve) provare. La giustizia non sempre è equa ma smettere di cercarla è una sconfitta in partenza. Le parti della storia erano punteggiate da due note grevi e iconiche, alla Beethoven, quasi a rimarcare la separazione dei ruoli istituzionali, l’eterna distanza tra legge e giustizia.
Altri, più fanatici di storia, avranno ricordato la vittoriosa campagna presidenziale di Richard Nixon del 1968. Forse per buon auspicio o per un perverso gioco di ruolo, Trump cita spesso il suo famoso predecessore, come ora invocando ordine e legalità per condannare e punire le rivolte esplose in molte città dopo l’ennesimo morto per mano della polizia, ancora una volta di colore. Nixon però, alla domanda di un giornalista (nero, incidentalmente) spiegò che non intendeva l’uso generalizzato di forza per reprimere, bensì che «non si può avere ordine senza giustizia» e che «se si ignora il dissenso, se si ignora il cambiamento, si rischia di ottenere solo il disordine, la rivoluzione». Forse è stata l’unica volta che Nixon ha avuto vera visione politica, considerate le scelte assurde e lo scandalo finale; forse è l’unica volta che c’ha preso… ma il suo concetto era ben diverso da quello ripreso da Trump ed è corretto riconoscerlo.
Se la violenza non è mai giusta, ci sono situazioni estreme in cui può essere contestualizzata, quei casi in cui ogni altro metodo si è rivelato inutile e non si può ricorrere ad altro che alla rabbia. Ci sono ceti sociali che non hanno voce, i cui diritti vengono sistematicamente calpestati, ridotti al silenzio e alla passiva rassegnazione. Sono i “falliti” di una società spietata e arrivista, dove chi fa un lavoro onesto viene deriso da chi specula in borsa e crea bolle di ricchezza enormi e fragili, indipendentemente dal colore della pelle. Pur conoscendo il gap oggettivo tra le possibilità che ha un bianco rispetto a un nero, vogliamo parlare dei misfit in generale, gli scarti di una struttura sociale che esclude chi non sa stare al passo, chi semplicemente ha un passo diverso. Persone con un’istruzione, un’intelligenza e capacità differenti. Persone fuori luogo nella omologazione proposta dal modello americano. Sono stati questi cittadini emarginati, sfruttati o ridotti in povertà a iniziare la rivolta.
L’assassinio di George Floyd (“dite il mio nome”) e di tanti altri, vittime dei soprusi della legge, è stato lo starter per le molte ingiustizie subite e violenze taciute, per una vita da invisibili portata allo stremo da una crisi economica e sanitaria senza precedenti, con oltre 40 milioni di persone rimaste senza lavoro. La violenza, a volte, serve a farsi guardare, è necessario urlare per farsi sentire, lo sanno anche i bambini. È molto triste un mondo in cui un altro uomo morto, ammazzato in maniera ignobile da chi ha giurato di “Serve and Protect” (servire e proteggere), non risveglia più le coscienze quanto la distruzione di proprietà privata, lo sfascio di semplici, ripetibili, ricostruibili COSE. Nel suo cinismo, la rivolta colpisce dove fa male davvero.
I due concorrenti alla presidenza del Paese degli Uomini Liberi stanno strumentalizzando il caso Floyd, senza lasciare una minima traccia di umanità, di vera partecipazione e di volontà di rimediare. Trump parla di legalità dimenticando chi ha causato in primis tutto questo: un sistema giudiziario che protegge la ricchezza invece dell’individuo, un corpo di polizia addestrato all’uso della forza prima che della parola. Parla di riportare l’ordine mentre nella sala sventola il banner della NRA, potente lobby delle armi sponsor neanche tanto velato di una campagna “all’ultimo proiettile”.
Joe Biden, dal lato opposto, accusa il rivale di alimentare odio mentre l’America ha bisogno di un leader che «riconosca la sofferenza di intere comunità che hanno vissuto con un ginocchio sul collo per troppo tempo»; senza pensare che per molti anni quel ginocchio è stato di parte democratica e i progressi sono stati davvero pochi. Trump appare al momento in difficoltà, viene addirittura dato 10 punti dietro l’avversario e, secondo la testata politica “The Hill”, il suo atto di forza, mirato a far passare Biden per un debole, ha avuto come effetto una forte perdita di consensi. Anche a livello internazionale, un presidente più spesso tollerato che amato, comincia a ricevere critiche sempre più aperte.
In Cina, è stato criticato per i double standards con cui le proteste di Hong Kong – Regione speciale cinese che sta lottando per mantenere la propria indipendenza e libertà – sarebbero da lui giudicate legittime e addirittura sostenute economicamente, mentre quelle nel suo stesso paese andrebbero represse senza esitazioni. L’ingerenza americana negli affaracci sporchi di tanti paesi non è certo una novità; ma, forse per la prima volta, qualcuno alza la voce per denunciare un diverso trattamento dello stesso problema, a seconda che si verifichi in USA o a casa d’altri. Per una potenza che dichiara guerra (commerciale), cerchi di recuperarne un’altra, tentando di reintegrare la Russia nel G7, cancellando di colpo l’annessione unilaterale della Crimea. Il governo inglese, ancora avvelenato dai fatti di Salisbury, ha subito rigettato la proposta, così come il Canada; la cancelliera Merkel già aveva declinato la propria partecipazione, per ragioni sanitarie che suonano come minimo riduttive e hanno già causato lo slittamento dell’evento a fine estate.
È un presidente circondato, sotto assedio, quello che si difende pronunciando frasi agguerrite contro i manifestanti in molte città degli States. A dir la verità, non si trova in un mondo tanto diverso dal 1968 e, storicamente, le rivolte hanno sempre favorito i repubblicani. Qualcosa però sembra essere cambiato nella mentalità dei comuni cittadini, che mai come ora si stanno unendo a proteste che non li toccano direttamente: sono numerosi i casi di esponenti istituzionali che marciano in corteo con chi li mette in discussione, poliziotti che si inginocchiano con i manifestanti, Governatori che esprimono posizioni contrarie al loro capo supremo. Trump, in un momento della storia americana in cui un cambiamento sembra pronto a nascere, spreca la lezione del suo mentore Nixon, rifiutando di vedere il progresso mentre accade. Chiuso nel bunker, pronto a mandare «le armi pesanti a risolvere questa vergogna» sembra aver perso il contatto con la realtà. Le elezioni americane sono un evento strano, a tratti illogico e con ripetuti colpi di coda. Quest’anno saranno complicate e rese ancor più interessanti da una spinta dal basso, ma anche dall’esterno, che non veniva percepita così chiaramente da molti anni.