La prima volta non fa neanche male. È tale lo stupore che tutto dentro di te si blocca per un momento, gli occhi si sgranano, la bocca si abbandona in una lunga O e il cervello chiude i battenti. No, non può essere. Ho frainteso, non può averlo fatto. Quando la faccia incassa il colpo, fa un movimento arcuato e all’esplosione rapida dello schiaffo segue un rinculo più lento, che lascia in effetti trapelare un bruciore, un prurito della pelle. Le lacrime arrivano da sole, senza singhiozzo, riempiono la vista di scintille tremolanti e scendono lente. Mario si era guardato la mano, sembrava non riconoscerla, quella prima volta. Era venuto a cullarmi, sussurrava frasi di scuse, dichiarazioni di un amore appiccicoso. Promesse.

Non fare rumore. Se non fai rumore, forse gliene basta uno. Ho anche provato, le prime volte, a reagire. A difendermi e a urlare; anche a rispondere con calci e sberle. Ma con Mario non conviene, finisce ogni volta molto male; meglio adottare la tattica del porcospino: chiudere tutto il corpo in una palletta compatta, restare in silenzio assoluto con gli occhi chiusi e aspettare. Prima o poi smette. Non lo so cosa lo faccia scattare ma è chiaro che dopo un po’ quella spinta perde slancio, i calci arrivano svogliati, gli insulti diventano una sorta di preghiera, sottovoce. Se ne va, alla fine. Esce dicendo che lo faccio impazzire, che io faccio male a lui, che se fossi migliore non dovrebbe arrivare a tanto.

Rimango immobile, in silenzio, annientata. Sono la causa e l’effetto, il detonatore e l’esplosivo; è solo colpa mia, che sono sciatta, insufficiente, inadeguata.

L’esplosione di rabbia porta con sé un vuoto d’aria, dopo. Lentamente riprendo a respirare; anche i pensieri provocano fitte di dolore, quindi non penso. Raccolgo i miei pezzi in un abbraccio, provo ad alzarmi e barcollo contro il divano. Il mondo sembra muoversi sotto i miei piedi e non il contrario, sono Holly Hunter in Lezioni di Piano, solo che qui non piove e non ho quella stupenda gonna in cui accasciarmi. Mi butto sul letto e passo le mani sui lividi, penso al mio ragazzo che dorme di là, a quando era piccolino e dopo una storia mi ha detto «mamma, quando sono grande lo ammazzo».

Tutta la vita ad ascoltare uomini che mi spiegano cosa devo sentire, come mi dovrei comportare, cosa fare con il mio corpo. Uomini che sanno cosa sia giusto per me, cosa mi farà stare bene e sentire realizzata. Che giudicano come sono vestita, con chi vado a spasso, se bevo un bicchiere di troppo; che mi insultano, mi chiamano troia nello stesso momento in cui si approfittano della mia fragilità. Rideranno di me con gli amici, si scambieranno le foto, come figurine nell’album dei calciatori. Una vita a subire umiliazioni, a essere toccata e passata di mano; svilita poi, quando non servi più.

Se tutto l’amore che puoi avere è malato, impari che va bene anche quello, ti fai bastare i giorni buoni, cerchi di dimenticare gli abusi, le parole con cui vieni lapidata.

Arrivi ad aspettarlo, il momento delle botte, quel momento in cui non sei niente; quando non succede è anche peggio, passi le ore, i minuti come una volpe braccata, pronta a scattare a ogni movimento o rumore. Senza alcuna possibilità di fuga.

L’unico modo per sopravvivere è uscire dal corpo. Mi metto in un angolo del soggiorno e guardo quelle due persone nella stanza, vedo Mario prenderla per le spalle e scuoterla, sbatterla contro il frigo (tintinnano le bottiglie, sentito?) e aspettare che rialzi la testa per colpirla con un pugno nello stomaco che toglie il fiato. Li vedo da lontano, guardo come si guarda passare un treno, sono talmente in alto da sentire appena il sangue che scende dal naso. Sono due persone che non conosco: lui ha un viso familiare ma trasfigurato dalla rabbia, ha zanne da lupo e artigli di drago, parla sputando saliva che resta sospesa in goccioline immobili, in un fermo immagine. Clara invece è irriconoscibile, lei che ha il sole dentro e un sorriso per tutti, lei con i suoi interessi, le amiche e gli aperitivi. Dove sono queste cose adesso – mi chiedo guardandomi cadere in ginocchio sotto un altro colpo –, dove sei Clara?

Io non ci sono più, c’è questa signora impaurita e silenziosa, adesso. Clara è come una fetta biscottata. Sai quando apri la scatola e tiri fuori le fette nella confezione singola, integre e perfette. Poi apri il cellophane, ne tiri fuori una e ti si rompe in dieci pezzi. Briciole e tocchetti che cerchi di ricomporre, li rimetti insieme come un puzzle e ci spalmi una grossa dose di marmellata, che li tenga uniti o almeno te ne dia l’illusione. E infatti, appena provi a portarla alla bocca, la fetta biscottata si sfalda di nuovo, un pezzetto irrimediabilmente cade sui tuoi pantaloni, lato marmellata. Pantaloni e maglie a maniche lunghe, sciarpe fuori stagione, primer e fondotinta, tutorial su internet; occhiali scuri, scudi protettivi, vergogna. La vergogna è peggio del dolore fisico, quello passa ma lei resta sempre con me. Mia madre dice che succede in tutte le famiglie, che litigare fa bene all’amore, rinsalda le unioni. Spezza le ossa, nel frattempo, ma lei questo non può saperlo. Mi dice di portare pazienza, che senza di lui sono persa.

E temo abbia ragione: io non esisto, non possiedo nulla. Non ho un lavoro e nemmeno un bancomat. Sono quella che incontri per le scale con la spesa, che sembra fare più fatica di quel che si direbbe dal sacchetto. Quella che sorride sempre ma ha una lago nero negli occhi, che distoglie lo sguardo nella speranza che tu non veda il livido. Ma per il mondo, io non esisto. Sono moglie di, madre di, figlia di, ma da sola non valgo niente, sono uno zero assoluto. Mi hanno spenta.

Dormo con Mario da ventun’anni. Dormo nella solita pallina, nell’angolo in alto a destra del letto matrimoniale. Non mi muovo più durante la notte, resto aggrappata al bordo per paura di cadere ma di solito non faccio movimenti perché Mario ha il sonno leggero e, se si sveglia, poi vuole scopare. Mi prende da dietro e non importa se sto dormendo o facendo finta, lui continua. Sposta lenzuola e vestiti, si infila tra le mie gambe e spinge forte, spinge come un toro sulla vacca, da solo, in un atto a cui non partecipo. Mi sento come la bestia finta che usano negli allevamenti, un grosso sacco vuoto da riempire. Si fa spazio a morsi, grugnisce e io sparisco, mi sento svanire, la sua mano a stringermi la gola per impedirmi di urlare. Poi va in bagno canticchiando e quando torna è gentile e premuroso. Ma io non sono lì, sono a correre in un prato, rotolo nell’erba e rido. È passato così tanto tempo da quando ho riso davvero l’ultima volta.

Mi picchia da 16 anni, da quando Marco era all’asilo. È lo stress, le incertezze per il lavoro; poi è morta sua madre, la tristezza, la disperazione. Ha avuto una vita difficile, un’infanzia complicata da un padre cattivo che non gli ha dato amore. Lo so. So tutte queste cose, me le ha dette lui, gli ha fatto eco mia mamma e le ho sentite anche dai suoi amici. Ma io no.

Sempre la solita egoista, guardo solo a me stessa e non penso a dare un futuro al mio bambino, cosa mi sono messa in testa di scappare e andare dove poi.

Mi riprende in cinque minuti, non ho nemmeno la patente, me ne vado a piedi ma dove, chi, quando. Lo ammazzo. Mentre dorme, prendo un coltello e glielo pianto nel petto, un solo colpo e resto lì a guardarlo liquefarsi, sciogliersi in una grande pozza scura. Ma ammazzo cosa, che finisco in galera e mio figlio resta orfano due volte.

Marco è un bravo ragazzo, lui non ha colpe, ha perfino provato a mettersi in mezzo più di una volta. Anche ieri sera, che è tornato presto. Ero sul pavimento a fare il porcospino, Mario con la cintura in mano. È corso verso di me, mi ha raccolta come un cucciolo e si è girato di scatto verso suo padre, piangendo e supplicandolo di andare via. Sentivo la rabbia montare nelle sue braccia che mi sostenevano, stava per scattare ma l’ho fermato con lo sguardo. Urlava NO, il mio unico occhio aperto, e Marco si è bloccato. Mi ha accompagnata in bagno e mi ha aiutata a ricomporre ancora una volta la fetta biscottata. Ha aperto l’acqua della vasca e mi ha calata nel tepore con tutti i vestiti. Siamo rimasti qualche minuto in silenzio, aspettando di sentire la porta sbattere, poi abbiamo ricominciato a respirare.

L’acqua lava le colpe, anche di chi non ne ha. Scioglie le tensioni e permette l’abbandono, la resa. Guardo il mio uomo, quello che ho creato io e che ama le donne, le rispetta e le ammira. Mi canta una ninna nanna, sottovoce; mi accarezza la testa.

«Mamma – dice poi – ora esci di qui, ti vesti e andiamo via». Nota il terrore nel mio occhio pesto (non posso uscire così, nessuno deve vedermi così) ma la mia paura, la vergogna non lo smuovono.

«Ora ti asciughi, ti vesti e andiamo via – ripete, come facevamo quando imparava le tabelline, una cantilena – Prendiamo la macchina e ce ne andiamo. So io dove, mi sono informato con un’amica».

Mi accarezza la testa e pian piano mi tira fuori dalla vasca, l’acqua scivola su di me e fa un piccolo vortice scomparendo. Guardo nello specchio e mi parte un brivido. Nell’occhio aperto brilla una fiamma, la bocca si accartoccia in un fantasma di sorriso. Sono io, quella nello specchio. Sono Clara e sono viva.

Le foto di questo pezzo sono tratte dal progetto psicologico-fotografico “Acqua Calda”, in cui l’amico Silvio da anni si dedica a raccontare la storia delle donne reali. Fotografa donne comuni, semplici e complesse, ragazzine e mature, intere o già spezzate, mentre si spogliano dei pesi di una vita, rinunciano alle difese e scivolano nel calore. Queste bellissime donne, così simili a ognuna di noi, nella loro impacciata, sfrontata nudità ritrovano il proprio potere e l’infinita forza dell’essenza.