Dal 2011 ad oggi sono oltre 100mila i cittadini siriani scomparsi nel nulla. Esattamente come accadde in Argentina e in Cile negli anni Settanta e Ottanta con le dittature rispettivamente di Jorge Videla e di Augusto Pinochet, oggi nel Paese mediorientale il regime di Bashar Assad elimina gli oppositori politici facendoli letteralmente sparire in un “buco nero” di silenzi e oblio. Una “pratica” utilizzata da sempre dall’attuale presidente siriano per contrastare i dissidi interni e scoraggiare l’opposizione, ma che negli ultimi anni – da quando cioè è scoppiata la guerra civile – ha assunto, tristemente, proporzioni inimmaginabili. Un fenomeno gravissimo, in gran parte ancora sconosciuto, nonostante le campagne di sensibilizzazione internazionale di chi, fra parenti e amici degli scomparsi, non vuole rassegnarsi al muro di gomma alzato sulla vicenda dal governo centrale. La Comunità internazionale, evidentemente, non riesce a trovare il modo per intervenire in maniera efficace sul regime di Assad che, pur avendo perso durante il conflitto buona parte del suo territorio di cui controlla ormai soltanto una porzione a sud-ovest (nella zona della capitale Damasco e nei dintorni), tiene ancora formalmente in mano il potere. Un potere che ha ereditato vent’anni fa, quando cioè suo padre Hafiz, a sua volta dittatore per oltre un trentennio, gli consegnò di fatto le chiavi della Nazione.

Un territorio, quello siriano, prevalentemente desertico e attraversato nella sua vastità di sabbia e aridità da carovane e tribù nomadi, ma anche da pellegrini cristiani e musulmani. Un territorio soprattutto strategico per posizione e risorse, con quindi enormi interessi economici in gioco. Non è un caso se le attenzioni internazionali hanno ben presto trasformato una “semplice” rivoluzione di giovani lavoratori e studenti – che invocavano dal governo soltanto più di democrazia e libertà – in una guerra internazionale di posizione, dove Russia, Stati Uniti, Iran, Israele e Turchia – solo per citare gli Stati più coinvolti – hanno avuto e stanno ancora avendo un ruolo determinante per il protrarsi del conflitto. A cominciare, ad esempio, dall’appoggio dato dal premier russo Putin ad Assad che, quando nel 2014 era ormai ad un passo dalla capitolazione per mano dei ribelli, è riuscito grazie a quel sostegno militare ed economico a ribaltare in extremis le sorti belliche. Per proseguire, poi, con gli Stati Uniti, che nonostante il dichiarato disimpegno dalle zone di guerra dei marines del presidente Trump, stanno cercando dal canto loro di influenzare le vicende siriane aiutando, in palese violazione delle norme internazionali, i ribelli, con peraltro non convincenti risultati. In tutto questo, poi, vanno inserite le mire espansionistiche della Turchia di Erdogan, l’appoggio sunnita dell’Iran ad Assad, le aspirazioni dell’altrettanto martoriato popolo curdo a trovare nelle zone a nord-est un territorio che li accolga e, soprattutto, l’irrompere improvviso nel 2013 di Daesh e del Califfato musulmano nella zona, intervento che ha inciso profondamente sull’esito della rivoluzione. In questa intricata “centrifuga” di tensioni e interessi incrociati a pagarne le conseguenze è stato soprattutto il popolo siriano, ormai quasi del tutto inerme di fronte alle violenze perpetrate dalle varie milizie scese in campo sul proprio territorio.

Fra le migliaia di desaparecidos in Siria purtroppo si annovera anche il nome di un gesuita romano, Padre Paolo Dall’Oglio, che proprio oggi, 17 novembre, compirebbe 66 anni e che per oltre trent’anni si è battuto per aiutare la popolazione locale con la sua opera di evangelizzazione e sostegno alle comunità più povere del Paese. Padre Dall’Oglio ha fondato nel 1982 il monastero di Mar Musa, vicino alla cittadina di al-Nabk, a un centinaio di chilometri circa a nord-est di Damasco, in pieno deserto: si tratta di una comunità cattolica di rito siriaco, vero e proprio centro spirituale della zona. Grazie all’azione del suo fondatore, Mar Musa ha promosso il dialogo interculturale fra Cristianesimo e Islam. È un luogo di pace e riflessione, che ha accolto in oltre tre decenni di attività centinaia di giovani e studiosi, curiosi di apprendere, confrontarsi e conoscere gli elementi di questo interessante esperimento confessionale. Padre Dall’Oglio ha anche cercato, nello stesso periodo, di sensibilizzare i governi europei (fra cui anche quello italiano) nei confronti della mancanza di democrazia subita dal suo popolo d’adozione, per il quale era ormai diventato un vero e proprio punto di riferimento. Espulso in varie occasioni proprio per il suo attivismo, che lo aveva reso inevitabilmente inviso ad Assad, Padre Dall’Oglio il 29 luglio del 2013 è scomparso mentre si trovava a Raqqa, dove si era recato per appoggiare la rivoluzione che in quel momento vedeva la città del nord del Paese fulcro delle operazioni. Pur sconsigliato da chi temeva, a ragione, per la sua incolumità, pare che avesse tentato di instaurare un contatto con l’emiro Abdulrahman Al-Faysal, personaggio di spicco dell’Isis in quel periodo asserragliato in uno dei palazzi più imponenti della città. Il gesuita aveva cercato di avvicinarlo per convincerlo a non ostacolare la “primavera siriana”. Da quel giorno non si è saputo più nulla di lui, così come nulla più si è saputo della sorte di migliaia di rivoluzionari siriani. Per non dimenticarli e per non rendere del tutto vana la loro azione, è importante che l’ONU e i governi delle Nazioni coinvolte trovino al più presto una mediazione per un cessate il fuoco immediato e duraturo, che permetta nel tempo alla popolazione siriana di ritrovare una nuova pace per costruire un nuovo futuro. Nel nome di Padre Dall’Oglio e dei tanti “desaparecidos” siriani.

Padre Dall’Oglio, a sinistra, con il Nunzio Apostolico di Verona in Siria Cardinal Mario Zenari (Foto di Fabiana Panozzo)

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