La nuova vicepresidente degli Stati Uniti d’America si deve ancora insediare e già circolano epiteti più o meno fortunati per raccontarla: dall’imperante “afroamericana” che occupa tutti i TG nazionali, al più discreto “di colore” o anche “figlia di immigrati”, fino al titolo di un quotidiano che in questi giorni l’ha definita “mulatta”. Chiariamo fin da subito che tutti questi epiteti sono corretti e applicabili in qualche modo alla sorridente Kamala Harris. E sono pure tutti sbagliati.

Per prima cosa, andiamo a frugare nel passato di Harris. Sua madre, indiana di casta Bramina (la più alta e ricca dell’arcaico sistema) si trasferisce negli Stati Uniti per completare gli studi in medicina, dove consegue dottorati e riconoscimenti. Incontra in ambito accademico il padre di Harris, immigrato dalla Giamaica per simili motivi: un’incombente laurea a Stanford. Non si tratta insomma di due schiavi liberati, bensì di “fughe di cervelli” dai rispettivi Paesi d’origine. Cervelli benestanti che hanno avuto quel successo personale che tutti i fan degli USA vanno cercando proprio lì, nella terra delle opportunità, dove puoi costruire con le tue mani un futuro migliore per te e i tuoi figli.

Nella sua biografia, Kamala Harris racconta di come sua madre si integrò fin da subito nella zona della Baia di San Francisco, area multirazziale e progressista, dove fu accolta nella importante “Black community”. E qui l’italiano mostra il suo primo limite: non abbiamo una parola che traduca quel “Black” nel senso che gli viene dato dagli americani e, per spiegarlo, facciamo un piccolo passo indietro. Negli USA, la “Black community” (o comunità nera) nasce spontaneamente tra gli schiavi deportati dall’Africa, che sentono il desiderio di un’identità comune, di esistere per resistere; per poi arrivare secoli più tardi a sfidare le stesse strutture che li hanno di fatto uniti tra loro. La questione razziale è pura ideologia, un’invenzione che trovarono persone innamorate della libertà per giustificare il fatto che ne tenevano altre prigioniere. Il concetto di razza non esiste, va creato e ricreato continuamente, attraverso la violenza, la discriminazione, la ghettizzazione, lo sfruttamento. Nella comunità nera, non contano le tue origini precise: per farne parte ed esservi accolti è però necessario sentirsi pedine dello stesso processo. È una questione di contesto sociale, non di colore della pelle.

Tornando a Kamala Harris, con un padre giamaicano potrebbe davvero essere una mulatta: la Giamaica era un punto nevralgico per la tratta degli schiavi, vi vivevano molti coloni europei che sistematicamente violentavano le proprie schiave e creavano molti bellissimi bambini con la pelle ambrata e tratti somatici meno definiti. Gli stessi cognomi sull’isola sono di origine prevalentemente europea, perché gli schiavi assumevano spesso quello del padrone. La nonna paterna di Harris si chiamava Finegan, per dire, nome con chiari richiami all’Irlanda. Insomma, potremmo chiamare Kamala Harris, nera, indoamericana (ma non indiana nativa come si è sentito in TV, mi raccomando) o afroamericana. Potremmo spingerci a mulatta e, come abbiamo visto, perfino darle della gaelica, senza sbagliare. La domanda vera è: vogliamo farlo?

Non è proprio così necessario trovare una casella dove incastrare ogni cosa. Certo, aiuta la memoria e la comprensione, ma non è davvero necessario. La signora Harris ha indubbiamente colto un’opportunità al volo, forse irripetibile. Dietro alla sua elezione c’è evidentemente un’ottima strategia politica; la sua pelle marrone e luminosa la incastra perfettamente con il Biden che più bianco e incartapecorito non si può, il suo essere donna tocca le corde del femminismo, del girl empowerment e prosaicamente recupera i voti di tutte le donne che odiano Trump. Ma Harris non è solo una donna nera, moglie (di un ricco avvocato di religione ebraica, giusto per completare il mix di induismo e chiesa battista con cui è cresciuta), amante degli animali e, roviniamoci, pure ambientalista. Tutte queste caratteristiche concorrono a formare una donna forte, preparata, che ha vinto molte volte prima di questa.

Ha una carriera brillante alle spalle, che parte dalla gavetta (okay, una gavetta da ricchi ma con ben pochi regali): laureata in scienze politiche, inizia come vice procuratore nella contea di Alameda; nel 2003, dopo un paio di anni di pratica nella procura di San Francisco, sfida il procuratore in carica e viene eletta, con successive riconferme fino al 2011. Nel 2010 si candida e viene eletta procuratore generale della California, prima donna a ricoprire il ruolo. Famosa per le altissime percentuali di vittoria in tribunale, ha anche partecipato attivamente alla creazione di leggi ambientali e contro la dispersione scolastica. Ha inoltre creato l’unità investigativa contro i crimini d’odio, in difesa della comunità LGBT, e si è dichiarata contro la pena di morte, pur essendo nota per la sua durezza nell’impedire la liberazione dei carcerati, convinta da sempre che la pena vada scontata fino alla fine per poter ambire al reintegro nella società. Si è meritata il nomignolo di Top Cop (“superpoliziotta”, nda) da parte dei Black Lives Matter, anche per aver votato contro l’introduzione delle body-cam.

Nel 2016 si candida alle jungle primaries della California, per ambire a un posto in Senato. Risulta di gran lunga la più votata e batte la seconda classificata con oltre il 60% dei voti. Un’altra prima volta: la prima donna di origini asiatiche a sedere nel Senato degli Stati Uniti. In quel ruolo ha fatto opposizione vera e dura, coniando ad esempio il termine Muslim Ban per indicare il divieto di ingresso dei musulmani negli USA chiesto da Trump. Condusse interrogatori passati alla storia sul licenziamento pretestuoso del direttore dell’FBI. E non stava interrogando un piccolo spacciatore, era di fronte a McCain e Burr, senatori di vecchia lega, il primo ex candidato alla presidenza e l’altro responsabile della Commissione Intelligence. Insomma, la Vice President Elect degli Stati Uniti è una ragazza cresciuta con valori e principi molto solidi, che ama poco i compromessi e sa decisamente prendersi quello che vuole.

La comunità nera di San Francisco ne ha forgiato il carattere, l’ha accolta come suo onorato membro e il suo spirito ne guiderà le decisioni durante il mandato con Biden. Considerata l’età del nuovo POTUS, potrebbe anche farci la sorpresa di diventare la prima donna sul trono politico più importante del mondo. Non perché è una nera e serviva per accattivarsi i Black Lives Matter, o almeno non solo per quello. Kamala Harris è forte, tenace e vanta esperienza e competenza come pochi altri. Un’ultima nota: ce ne sono altre due di Harris, la sorella Maya – laureata a Stanford, opinionista politica e responsabile della campagna elettorale – e la nipote Meena, fondatrice della Phenomenal Women Action Campaign. Saranno anche mulatte, come dice quel titolista sfortunato, ma ci sono tutti i presupposti perché le signore Harris ce ne facciano vedere di tutti i colori.  

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