«Certe volte le persone di una certa età si chiudono dentro. La chiave che hai usato per tutta la vita riesce ad aprire finestre sempre più piccole. È un dolore irresistibile».

La protagonista di “L’eredità dei vivi”, edito a settembre 2020 da Marsilio e scritto dalla veronese Federica Sgaggio, è una lenta rivelazione. Rosa è vista a ritroso: una donna la cui storia è raccontata secondo una prospettiva che fa rapidi flashback, ma il cui divenire si confronta costantemente con gli ultimi anni della sua vita.

Le vicende narrate dall’autrice affondano nella realtà che sua madre, Rosa appunto, ha sperimentato e raccontato nel tempo. Esperienze che si intrecciano con la storia del nostro Paese, ma che sono fatte di pelle viva e di mutazioni. Questa sera l’autrice presenterà per la prima volta in città il libro alle 20.30 nella chiesa sconsacrata di Santa Maria in Chiavica, all’interno del premio letterario Scrivere per amore

Se potrebbe a tratti definirsi un romanzo di natura sociale, è la scrittura, la lingua scelta da Sgaggio a non mettere mai la protagonista fuori fuoco. Nemmeno nelle personali considerazioni, le più dolorose, in cui parla la voce di una figlia che ha camminato accanto a una madre forte, ma piegata dalle sue fatiche, e che spesso ne è stata il luogotenente, c’è un disequilibrio che sposti l’obiettivo. La visione di Rosa diventa subito dominante: «Fra noi non vedeva differenza: lei era me e io ero lei».

Una forma di assimilazione che si potrebbe definire naturale, inevitabile, e che spesso si verifica nel rapporto madre-figlia, ma che in questo caso è cementata dal fratello minore Francesco, “l’origine”, come si legge nella dedica del libro. Un figlio segnato da un errore medico madornale, imperdonabile, le cui conseguenze travolgono la gioia di una maternità desiderata. Una disattenzione che per quel bimbo sottopeso, accudito in un’incubatrice di cui non verrà regolato il termostato e l’ossigeno, impone una grave disabilità.

E Rosa muta pelle. Persino i suoi capelli alla piccola Federica sembrano fluttuare in aria quando al telefono la madre cerca di comunicare con il marito per dirgli che qualcosa per il piccolo non sta affatto andando bene.

«Io sono sicura di aver capito tutto quello che c’era da capire: niente sarebbe più stato come prima, la speranza ha cambiato il suo posto nel mondo, vive in una stanza comunicante con quella della disperazione».

Come una coperta patchwork, Sgaggio unisce i pezzi, li accosta secondo un personale senso estetico, fatto anche di contrasti e giustapposizioni, tanto che non c’è bisogno di trama né di un rigore cronologico, basta la solidità dei punti e l’affiancamento di pezzi biografici, di ricordi scavati. E pure la ricerca del passato per mettere più a fuoco chi fosse davvero sua madre ha delle incertezze, è fatta anche di fotografie smarrite, di oggetti nascosti da qualche parte.

Nonostante la presenza di episodi allegri e scanzonati, in cui una donna semplice e intelligente dà lezioni di resistenza attraverso la levità, si percepisce una tensione costante. Il romanzo si sviluppa nel conflitto tra l’io narrante, il racconto, il senso di giustizia sociale, la progressiva stanchezza vissuta da Rosa, ma anche dall’autrice, nel rialzarsi dai mille rimbalzi dei tanti muri di gomma. C’è la mancata assimilazione dei tratti del “nemico”, quel brodo perbenista di provincia in cui galleggia una città nella quale Rosa si trasferisce insieme al marito e alla piccola Federica.

La scrittrice e giornalista Federica Sgaggio

La lingua materna è fatta di parole calde e accuminate. Attraverso di esse si inscena lo scontro con gli stereotipi di un Nord distaccato, a tratti vuoto, che vive le relazioni senza profondità, come strumento di controllo che consente di aggiornare la lista dei buoni e dei cattivi. Ma forse la guardia della protagonista resta sempre alta perché è a Solofra che Rosa ha la sua culla – e per questo forse è lì che desidera essere sepolta.

Il rapporto con Verona è in salita, d’altronde è qui che si tengono le battaglie più dure e dall’esito incerto: la relazione con il marito, la disabilità di Francesco, la separazione e poi l’accudimento di un coniuge che si ammala gravemente e in poco tempo muore. La crescita di una figlia che tanto le assomiglia e che tanto cerca di diventare altro. E poi la società che è dura da cambiare e richiede un impegno civile totalizzante, specie se la ragione principale di tanto attivismo è sempre lui, “l’origine”. Per non farlo vivere in un ghetto, per aprire le porte delle scuole, per dargli una dimensione sociale attiva, presente. Per cambiare le regole, ancora una volta, e dire che al mondo c’è una libertà possibile anche per Francesco.

Cade, Rosa. Alla fine si chiude dietro finestre da cui si vede sempre meno il panorama. A cambiare il registro di un’esistenza sempre in piedi è una co-protagonista, la vecchiaia, che si impossessa innanzitutto di quello che resta della gioia di vivere che questa donna ha comunque cercato di salvare. Quel rifiuto di confrontarsi «con il disfacimento e la consunzione» è un passaggio che ci avvicina inevitabilmente all’io narrante, a quella figlia che non vuole che una possibile felicità – quella di un rapporto finalmente alla pari, assolto, nonostante la fatica di restarsi accanto – non sia realizzabile se non solo quando una madre se ne va.

L’eredità di chi resta non sempre è alleggerita da un congedo. In questo caso fortunatamente esiste: sta in quella frase, «fa’ cos bbon», che Rosa dice alla figlia appena lei le annuncia un imminente viaggio in Africa. «Un’eredità gentile. Mi hai consegnato alla fiducia in me stessa, ai miei doveri verso di me».

C’è alla fine da accettare una storia che ha sempre quella conclusione, quell’assenza che si cerca di curare con i riti di un funerale – due saranno quelli per Rosa – davanti alla quale comunque ci si riconosce impotenti, anche se fino a quel momento si sono vestiti i panni pesanti da combattente. E a cambiare pelle è chi resta.

Federica Sgaggio, L’eredità dei vivi, Marsilio 2020