A 96 anni è venuta a mancare ieri a Roma la giornalista, scrittrice ed ex parlamentare comunista Rossana Rossanda. Qualche tempo fa aveva detto: «Mi dispiacerà morire per i libri che non avrò letto e per i luoghi che non avrò visitato». E forse è proprio questo il commiato che Rossanda avrebbe voluto: nessun rimpianto sul passato, su una vita vissuta fino all’ultimo con pienezza e rigore intellettuale e morale. Al contrario, uno sguardo sul futuro che lei non distolse mai, neanche a novant’anni, quando si definì «ancora una comunista ribelle».

Dirigente storica del Partito Comunista Italiano, la «più giovane tra gli uomini del Pci», dopo aver preso parte alla Resistenza durante la Seconda guerra mondiale, nel 1969 venne espulsa dal partito in quanto esponente dell’ala più movimentista che ruotava intorno alla figura di Pietro Ingrao, e nonostante il parere contrario del futuro segretario nazionale Enrico Berlinguer.

Rossanda infatti non risparmiò mai le critiche più dure al comunismo dogmatico del Comitato Centrale, di cui peraltro fece parte. In particolare, la frattura irrecuperabile avvenne prima sul rapporto Kruscev del 1956, che rese noti i crimini di Stalin, e successivamente sull’occupazione della Cecoslovacchia nel 1968 da parte dei Paesi del Patto di Varsavia. Il lato oscuro dell’Unione Sovietica e del PCUS (il Partito Comunista dell’Unione Sovietica) non la convinceva. E quando qualcosa non la convinceva, era abituata a dirlo. L’ipocrisia non le appartenne mai, e il rigore che la contraddistinse in ogni ambito d’azione la portò a non negare gli errori propri e del partito, ma ad affrontarli a viso aperto, assumendosene ogni volta il peso della responsabilità pubblica e privata.

Ma a quel punto, come scrisse lei stessa, «l’età dell’innocenza era finita» e voltarsi dall’altra parte e far finta di niente sarebbe stato per lei un crimine ancor peggiore del tradimento dell’ideale politico. Il PCI invece, pur condannando l’Urss, si limitò a parlare di «tragico errore». Al congresso del 1968 Rossanda intervenne tra i pochissimi delegati che si opposero alla maggioranza del partito: «Siamo qui riuniti mentre l’esercito di un paese che si dice socialista sta occupando un altro paese socialista». La delegazione sovietica abbandonò l’aula insieme alle altre, tranne quella vietnamita. Berlinguer dietro al palco le disse: «Hai fatto male, non sai come sono quelli. Sono dei banditi». Si riferiva ai sovietici. La rottura col partito comunista era ormai insanabile.

Partito al quale Rossanda rimproverò duramente anche di non essere stato in grado di cogliere e abbracciare in modo incisivo le istanze del movimento operaio e del movimento studentesco a partire dagli anni Sessanta. Marx, in una lettera a Bracke, non molti anni prima di morire, scrisse che era più interessato ai progressi reali del movimento operaio che a quanto fossero avanzati i programmi che parlavano di movimento operaio. Ebbene, Rossanda si definì sempre una marxista convinta, soprattutto dopo che intuì con profetica lungimiranza il rischio, per la sinistra italiana, di impantanarsi nelle sue elucubrazioni concettuali perdendo così di vista il legame con la Storia.

Poco dopo l’espulsione dal PCI, con Lucio Magri, Luigi Pintor e Valentino Parlato fondò nel 1971 “il manifesto”, prima come rivista e poi come quotidiano. La copertina del primo numero titolerà “Praga è sola”. Stefano Menichini, giornalista e attuale portavoce del ministro dell’Economia e delle Finanze Roberto Gualitieri, che su “il manifesto” iniziò a scrivere a 19 anni, ieri dalle pagine del quotidiano. “Il Foglio” ricordava così quel periodo: «Esauriti tutti gli errori. Consumati tutti gli orrori. Scartate e fallite via via tutte le alternative. Fattasi evidente l’impraticabilità di ogni rivoluzione. Quando umanamente e comprensibilmente ognuno (di noi) si adeguava all’esistente e tutt’al più a renderlo appena più morbido e accettabile, Rossana Rossanda restava dura come una roccia a ricordarci, con l’asprezza di quella voce sempre più flebile, che nessun riformismo possibile riuscirà mai a rendere accettabile ciò che è implacabilmente inaccettabile: l’ingiustizia connaturata del capitalismo. Lo sfruttamento non emendabile dell’uomo sull’uomo. Il fondamento non riformabile del conflitto di classe. Puoi decidere di non vederlo, di far finta che non ci sia, di accettarlo come dato immutabile, e andare avanti lo stesso. Lei non l’ha fatto. Gentilmente e gelidamente, non ha chiesto ad altri di imitarla. Però conosco tanti e tante, al “manifesto” e dintorni, che hanno faticato e un po’ anche sofferto dovendo portare il peso del rimprovero – implicito, ma spesso piuttosto esplicito – di colei verso la quale provavano rispetto, ammirazione, riconoscenza per aver dato coraggiosamente vita a una delle avventure politiche, umane e professionali più interessanti del dopoguerra».

Nel 1978 ci fu un altro durissimo scontro con la dirigenza del PCI durante il rapimento di Aldo Moro da parte della Brigate Rosse. Fu allora che Rossanda parlò del famoso «album di famiglia», riferendosi alla pericolosa prossimità delle BR con alcune correnti interne al Partito Comunista: «Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle BR. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria. Il mondo, imparavamo allora, è diviso in due. Da una parte sta l’imperialismo, dall’altra il socialismo. L’imperialismo agisce come centrale unica del capitale monopolistico internazionale». Nei giorni della fermezza, lei sostenne la tesi della trattativa. Dopodiché fu anche l’unica ad aver convinto il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, a parlare in un’intervista del caso Moro.

Rossana Rossanda fu atipica anche come femminista, perché dal movimento delle donne lei pretese un rapporto intellettuale e dialettico con il resto del sistema non radicale, e dunque molto più complesso da affrontare. Ne parlò così, in una delle sue ultime interviste a “l’Espresso” nel 2019: «È importante che la battaglia per i diritti delle donne sia più estesa e condivisa possibile, contro una “cultura maschilista”, intesa anche nell’accezione di “senso comune” di derivazione greca, romana e giudaica, ma si dovrebbe dire anche egizia o cretese, culture che hanno in comune una visione binaria della sessualità, sulla quale si innesta il principio della famiglia patriarcale come “società naturale “, basata sulla divisione gerarchica fra maschio e femmina. Non penso che questo schema sia da sottovalutare, esso conforma una parte rilevante degli esseri viventi, sia nella zoologia che fra i vegetali, ha determinato gran parte delle nostre culture ed arti, e penso sia utile tenerne conto, limitandomi a riproporre la tesi di un polimorfismo della sessualità, avanzata già da Freud, che non scaricherei così allegramente. Forse dovremmo riflettere criticamente sul bisogno di avere o darci una o più leggi, per essere più certe e certi, ma sempre “modi” del potere, cui soggiacciono anche le donne. Il potere mi sembra sempre la tentazione più pericolosa: in verità anche quello che definiamo potere patriarcale si fonda su un patto con le donne, che nella famiglia si accontentano di un sottopotere cui però tengono moltissimo, e che non rinunciano allo stesso modo ad esercitare».

Il 26 novembre del 2012 lasciò definitivamente “il manifesto” per insanabili divergenze col gruppo redazionale, «preso atto della indisponibilità al dialogo», e con una domanda: «Noi, nel nostro piccolo di gente che non mira a essere deputato, abbiamo detto che siamo per un’Europa che faccia abbassare la cresta alla finanza, unifichi il suo disorientato fisco, investa sulla crescita selettiva ed ecologica, non solo difenda ma riprenda i diritti del lavoro. Non piacerà a tutti. Ma chi ci sta?». Aveva già 88 anni, ma era così Rossana Rossanda: fino all’ultimo, «ancora una comunista ribelle».