Metti una mattina d’estate due ricchissimi leader, due figure forti sia nel rispettivo Paese sia a livello globale; sceglili con tanti interessi e un inquietante nemico in comune. Ora osserva come si stanno muovendo per ritrovare credibilità, in una fase in cui entrambi stanno per essere giudicati, uno dal voto del suo popolo e l’altro da un tribunale. Aggiungi un principe arabo che vuole andare sulla luna, due gocce di spirito guerrafondaio e coprile con un ombrellino di “fuffa” pacifista. Bevi d’un fiato, senza paura, questo cocktail pieno di vitamine, prosperità e serenità per tutti. Beh, fallo solo se non sei palestinese, of course.

Dopo il doveroso sarcasmo, proviamo ad analizzare seriamente cosa sta succedendo in Medio Oriente, con equilibri millenari che sembrano trovare una nuova formula e Israele che si riscopre amico di tutti. Dopo anni di segreto corteggiamento e regali costosi, il 13 agosto gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno ceduto alle lusinghe, annunciando l’avvio di un processo di normalizzazione dei rapporti con lo stato ebraico, grazie alla mediazione degli Stati Uniti. Qualche giorno fa, in un mediatico incontro alla Casa Bianca, è stato poi sottoscritto uno storico accordo di collaborazione (intitolato “Accordo di Abramo”), volto a intensificare le relazioni tra di due Stati in molti campi: commercio, trasporti, turismo e collaborazione scientifica. Stupisce pochissimo non trovare nel nutrito elenco la probabile vera ragione di un tale accordo: una strategia comune di sicurezza e difesa contro l’Iran. L’accordo è stato firmato anche dal Bahrain, piccolo arcipelago del Golfo retto – come tutti gli altri – da una dinastia sunnita ma con una popolazione marcatamente sciita e spesso visto come un possibile alleato informale dell’Iran.

Nello sforzo di salvare almeno le apparenze all’interno della Lega Araba, gli Emirati hanno preteso che Israele blocchi l’annessione (ne abbiamo già parlato in passato) della valle del Giordano. Le parole usate dai due rappresentanti politici sono emblematiche: mentre gli Emirati parlano di cancellazione del piano, il premier Netanyahu si limita a dichiarare alla TV israeliana che «non è cambiato nulla, il piano è stato posticipato ma intendo applicare la sovranità sulla West Bank, con l’aiuto degli Stati Uniti». Il vecchio politico resta sempre lo stesso, non sente nemmeno il bisogno di nascondere meglio le sue intenzioni, e questo lascia pensare che la leva che è in grado di applicare sui Paesi arabi sia molto forte: fanno indubbiamente gola l’intelligence, gli armamenti molto evoluti, la tecnologia e la protezione che tutto questo può dare contro l’Iran – un Paese che nonostante embargo e sanzioni appare sulle mappe con milizie strategicamente piazzate sempre più vicino (Iraq, Syria, Libano e perfino Yemen). Per questo motivo è lecito attendersi che altre Nazioni si uniranno all’accordo, che è stato ben accolto dai partner israeliani di sempre (Egitto e Giordania) ma anche da altri Paesi arabi preoccupati che un’avanzata della Fratellanza Musulmana, cioè l’Islam politico, possa minare le dinastie monarchiche al governo da sempre. Probabile l’Oman, con cui Israele aveva già iniziato rapporti diplomatici, così come Marocco e Sudan potrebbero seguire a breve. Ovviamente contrari Turchia, Qatar e – in caso servisse dirlo – Iran, che definiscono l’iniziativa vergognosa e minacciano conseguenze diplomatiche.

La Lega Araba ne esce con le ossa rotte, prima di tutto nell’eloquente silenzio con cui ha accolto l’annuncio dell’accordo e nella totale incapacità di prendere posizione a difesa della causa palestinese, che vede fortemente minata l’unica “arma” a sua disposizione nelle negoziazioni di una soluzione a “due Stati”, cioè la potenza e influenza dei suoi sostenitori. “Al-Jazeera”, noto quotidiano arabo, riporta come non sia stata approvata, la scorsa settimana, una mozione palestinese di condanna all’Accordo, cui ha fatto seguito la dichiarazione del primo ministro palestinese Ishtayyeh: «La Lega Araba – ha detto nella riunione di gabinetto del lunedì – è diventata simbolo dell’immobilismo arabo. L’accordo ne sancirà la sconfitta». Hamas, che controlla l’abominio a cielo aperto chiamato Striscia di Gaza, ha definito la firma «un’aggressione che porta grave pregiudizio» al tentativo di far riconoscere la Palestina come stato indipendente. Molti commenti sui social sono andati anche oltre, definendo l’atto emiratino come una pugnalata nella schiena, un tradimento, e accusando gli Emirati di aver “svenduto” la Palestina. In sua difesa, il ministro degli Esteri EAU parla della decisione come di «un passo molto coraggioso per fermare la bomba ad orologeria dell’annessione» e avrebbe fatto spallucce all’ipotesi del probabile clamore indignato del mondo arabo, definendolo «il solito baccano». Un assordante silenzio arriva anche dall’Arabia Saudita che, con il suo ruolo di difensore religioso dell’Islam, stenta a prendere posizione; il principe Mohammed bin Salman (MBS per gli amici) sarebbe probabilmente tentato di seguire il quasi omonimo MBZ (Mohammed bin Zayed, principe ereditario di Abu Dhabi e leader di fatto degli Emirati), con cui spartisce la forte ambizione e la voglia di cambiamento, ma lo sceicco suo padre non approverebbe, nel timore di scontentare il potente clero del paese. Certo, non indignarsi pubblicamente di fronte al riconoscimento del “nemico” da parte di un “fratello”, la dice lunga sullo stato tangibile delle nuove alleanze in formazione, così lontano dall’opposizione ideologica inamovibile che si vuol fare passare per realtà. Poco conta ormai, nel grande scacchiere mediorientale, il sacrificio di un piccolo popolo arabo, quello palestinese, di fatto sempre più solo nella strenua lotta per essere riconosciuto.

Tutti felici insomma. Israele si sente un po’ meno isolata e minacciata dai bombaroli, addolcisce il secondo lockdown con lo zucchero di un accordo commerciale vantaggioso e si erge a paladino del perdono, della fratellanza. Gli Emirati si riaccreditano agli occhi statunitensi dopo le ingerenze in Yemen, chiudono un accordo che potrebbe dare impulso all’economia e alle ambizioni di MBZ, e salvano perfino la faccia dicendo ai Palestinesi che l’hanno fatto per loro. Il presidente Trump mette un’altra crocetta sul programma americano pluriennale “Pace nel Mondo”, pace che persegue conto terzi, disinteressatamente, come tutti i suoi predecessori nel ruolo, sia chiaro. Ritirando le sue truppe da Paesi che definisce “stabili”, almeno tra un attentato e l’altro, ne dichiara finita la guerra, in un ottimismo onirico, quasi fanciullesco. E, diciamolo, lui ci crede davvero: potrebbe veramente essere scelto per il Nobel, dopo che il simpatico parlamentare norvegese lo ha di nuovo nominato. È pur vero che si tratta di un premio con un livello di accessibilità bassissimo, a cui concorre con altri 300 candidati e che pare aver perso molto del suo senso storico negli anni, se lo ha vinto perfino Barak Obama per il solo fatto di esser stato eletto a Presidente degli Stati Uniti! Ma la questione adesso è ben diversa: si sente nell’aria del Giardino delle Rose: Trump qualche soldato l’ha ritirato, accordi ne ha firmati e fatti firmare, tonnellate di democrazia le ha esportate. Ce la può fare!

(NdA: colonna sonora consigliata “Born to be Abramo”, EELST – 1990)