Del campo profughi di Moria, sull’isola di Lesbo, rimangono le carcasse delle tende bruciate. Le foto che arrivano da lì ci restituiscono le immagini di una città esplosa, nella quale nulla si è salvato dalla furia implacabile del fuoco.

Secondo il governo greco sarebbero stati alcuni dei residenti del campo ad appiccare gli incendi, per protestare contro la situazione durante la lunghissima quarantena imposta per l’emergenza Covid-19: l’8 settembre era il centosettantanovesimo giorno di lockdown a Moria.

I 13.000 ospiti che vivevano lì, ovvero sei volte la capienza prevista, sono ora costretti a dormire lungo l’autostrada o nei campi vicini. Poliziotti in tenuta antisommossa impediscono ai profughi di raggiungere la vicina città di Mitilene e ogni tentativo di rompere il blocco è respinto dagli agenti, che sono arrivati a sparare anche lacrimogeni.

Il 9 settembre 400 minori non accompagnati sono stati trasferiti sulla terraferma, ma il governo greco ha annunciato che gli altri sfollati rimarranno sull’isola e che saranno alloggiati temporaneamente a bordo di tre navi, due militari e un traghetto, che tuttavia ad oggi non sono ancora arrivate a Lesbo.

Il timore che il campo profughi venga ricostruito ha alimentato le proteste degli abitanti di Lesbo, che il 10 settembre hanno bloccato tutte le strade per accedere al centro del paese di Moria. Come avevano fatto lo scorso febbraio hanno usato camion, auto, massi per bloccare il traffico e impedire ai mezzi governativi e non governativi di raggiungere i profughi che dormono per strada e il centro di detenzione distrutto.

Non vogliono che il campo venga ricostruito: vogliono che l’isola venga evacuata.

Dal 2015 il campo di Moria è il simbolo del fallimento delle politiche europee sull’immigrazione. Fu costruito per volere dell’Unione europea nell’ambito dell’Agenda europea sulle migrazioni, che prevedeva che nel centro le persone arrivate dalla Turchia via mare rimanessero solo per pochi giorni, per essere identificate prima di essere trasferite sulla terraferma e in altri paesi dell’Unione europea attraverso i ricollocamenti. Nel 2017 tuttavia il programma di reinsediamento dalla Grecia e dall’Italia è stato sospeso, e le isole greche si sono trasformate in vere e proprie carceri a cielo aperto. La crisi sanitaria ha solo fatto da detonatore in una situazione che era già al collasso, nell’indifferenza delle autorità europee.

Inoltre da gennaio in Grecia è entrata in vigore una nuova legge sull’asilo che rende ancora più difficile ottenerlo, e il governo guidato da Kyriakos Mitsotakis all’inizio dell’anno aveva sospeso i trasferimenti sulla terraferma rendendo la situazione sulle isole greche di fatto insostenibile. Dopo le proteste degli abitanti, a fine marzo i trasferimenti sono ripresi, ma intanto il campo profughi è arrivato a ospitare tredicimila persone. Il 40% sono bambini. Bambini che non vanno a scuola, e che non saranno quindi mai padroni del loro futuro. Tutti gli abitanti vivono in condizioni considerate disumane, dal punto di vista igienico-sanitario in primis.

Alla fine di agosto, l’organizzazione non governativa Medici Senza Frontiere (MSF) ha avvertito che «rivolte violente», all’ingresso di una nuova clinica per il Coronavirus istituita dal governo per fornire assistenza a migranti, richiedenti asilo e rifugiati in mezzo alla pandemia, rappresentano «un crescente movimento antimigranti in Grecia».

I dottori di MSF hanno detto che i manifestanti «antimigranti» hanno attaccato anche la loro clinica pediatrica fuori dal campo profughi di Moria a Lesbo. La protesta è diventata rapidamente violenta, con un fuoco acceso fuori dalla clinica pediatrica, mentre alcuni manifestanti «lanciavano pietre nella struttura, dove il personale stava curando i pazienti, compresi i bambini».

Marco Sandrone, coordinatore per MSF a Lesbo, non usa mezzi termini: «Da qualche tempo assistiamo a un’esplosione di aggressività nei confronti di richiedenti asilo e rifugiati, nonché delle organizzazioni umanitarie e dei volontari che sono stati ripetutamente presi di mira e molestati per aver semplicemente cercato di fornire assistenza a gruppi vulnerabili a Lesbo. Questo incidente evidenzia un sintomo maligno che deve essere affrontato ora. Invitiamo le autorità a prendere tutte le misure necessarie contro la crescente retorica antimigranti, l’aggressione e la violenza che circolano a Lesbo, e ad agire immediatamente contro coloro che hanno molestato e attaccato gli operatori umanitari senza impunità. Le persone a Moria vivono in condizioni disumane da anni. Adesso è essenziale garantire il loro trasferimento in sistemazioni sicure».

Rimangono dunque molti dubbi circa la dinamica dello scoppio degli incendi nel campo di Moria. Quel che invece appare certo è il fallimento della politica europea sull’immigrazione che anziché aggrapparsi ai suoi valori, per poter interpretare una complessità certamente difficile da gestire, sembra aver scelto la più comoda via dell’abitudine.

Ma oggi più che mai è evidente che la strategia delle tendopoli non solo non funziona per i rifugiati, ma tanto meno per i cittadini residenti, ingiustamente costretti a convivere in situazioni di tensione ingestibili.

Sono necessari accordi tra Stati che si basino su presupposti diversi, mettendo il tema della mobilità condivisa nel quadro di nuovi partenariati politici con i Paesi di origine e transito dei flussi migratori.

Così come è necessario pensare a una ospitalità più diffusa sui territori, in accordo con le regioni, gli enti locali e in collaborazione con le organizzazioni non governative: non è auspicabile né sensato che 13.000 persone vivano in condizioni disperate ai margini di città costrette così a patire una convivenza tanto difficile.

Il problema dell’immigrazione non si risolverà da solo. L’unica via possibile è affrontarlo con una solida strategia comune europea, che metta da parte gli interessi economici e politici sui paesi più poveri e innalzi il proprio spirito, nella ferma convinzione che nessuno abbandonerebbe il proprio paese se non fosse costretto da motivi che per noi europei sono difficilmente immaginabili.