Il 20 e 21 settembre prossimi gli elettori del Veneto saranno chiamati ad esprimersi oltre che per il rinnovo del consiglio regionale, anche sulla riforma costituzionale che prevede un taglio del numero dei parlamentari pari a circa un terzo. Il provvedimento era già stato approvato in Parlamento, ma non aveva ottenuto nel voto finale la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna delle due Camere.

La Costituzione prevede in questo caso che il corpo elettorale sia chiamato a esprimersi in merito tramite referendum confermativo privo di quorum, e per avviare la procedura è necessario che, entro i successivi tre mesi dall’approvazione della riforma costituzionale, ci siano le firme di almeno un quinto dei membri di uno dei due rami del Parlamento, di cinquecentomila elettori o di cinque consigli regionali. Nella fattispecie, la richiesta di referendum era stata avanzata da 71 senatori, appartenenti in maniera trasversale a tutti gli schieramenti.

Per inquadrare meglio il quesito referendario sul quale saremo chiamati ad esprimerci, è opportuno ricostruirne la genesi. La Costituzione non fissava un numero massimo di parlamentari, ma ne definiva il numero proporzionalmente agli abitanti, diverso per Camera e Senato. L’attuale numero di Parlamentari, pari a 630 deputati e 315 senatori, fu stabilito tramite una riforma costituzionale nel 1963 ed è rimasto invariato fino ad oggi, nonostante diversi tentativi di modifica costituzionale sempre naufragati, l’ultimo dei quali targato Renzi-Boschi nel 2016 e silurato proprio tramite referendum.

Il taglio del numero dei parlamentari è un cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, il quale è da sempre diffidente rispetto alla rappresentanza indiretta con la quale si esercita la sovranità nelle democrazie parlamentari, ritenendo che essa debba essere praticata direttamente dal “popolo”, tramite un meccanismo di consultazioni permanenti effettuate per mezzo di piattaforme digitali. Sostanzialmente, la medesima procedura con cui il movimento sostiene di prendere le sue decisioni attraverso la ben nota “piattaforma Rousseau”.

Volendo semplificare, idealmente per M5S il parlamentare non dovrebbe essere nulla di più di un notaio delle decisioni prese dalla base degli attivisti. Inoltre, il Movimento sulla riduzione dei costi della politica ha costruito la sua narrazione. Narrazione alla quale, bene o male, si sono adeguati più o meno tutti i partiti presenti in parlamento, Partito Democratico compreso, il quale dopo aver votato contro il provvedimento ad ogni passaggio parlamentare, ha finito per approvarlo in ultima battuta, complice l’associazione di governo con M5S.

Così, qualora il referendum vedesse la vittoria dei “Sì” al taglio dei parlamentari (e lo ricordiamo ancora una volta, questa consultazione non prevede quorum) i deputati passerebbero da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. L’Italia ha circa 51 milioni 400mila di abitanti aventi diritto al voto (dati 2018), con 600 parlamentari la rappresentanza per avente diritto sarebbe pari a circa un eletto ogni 85mila abitanti, contro l’attuale di 1 ogni 54mila.

Per capire meglio il tema vediamo anche cosa succede tra i nostri tre maggiori vicini europei: Inghilterra, Germania e Francia.

Gli aventi diritto al voto inglesi sono 45 milioni circa (dati riferiti alle ultime elezioni del 2019) e eleggono 630 rappresentanti della Camera dei Comuni (la camera dei Lord è cooptata e non eletta, quindi ai fini della rappresentatività è ininfluente), perciò la proporzione è di un eletto ogni 71mila abitanti.

Il numero degli eletti nel Bundestag tedesco è variabile da elezione a elezione, in ragione del sistema elettorale vigente in Germania. Nell’attuale gli eletti sono 709, mentre gli aventi diritto alle ultime elezioni tenutesi nel 2017 erano circa 61 milioni 700mila, da cui deriva la proporzione di un eletto ogni 87mila abitanti. La Francia ha un parlamento composto da l’Assemblea nazionale, con 577 membri, e dal Senato che ne conta 348, per un totale di 925 membri. I francesi aventi diritto al voto sono circa 47 milioni (dati delle ultime presidenziali del 2017), da ciò deriva una proporzione di un eletto ogni 51mila abitanti circa.

Ha senso fare questo genere di confronti? La risposta è “sì e no, ma più no che sì”, in quanto posto che i diversi Paesi che abbiamo preso in esame hanno sistemi elettorali molto diversi tra di loro, per confrontarli occorrerebbe confrontare pure il loro grado di rappresentatività. Ad esempio, è più rappresentativo della volontà dell’elettore un sistema maggioritario uninominale come quello inglese o uno proporzionale a liste bloccate come quello italiano, dove il candidato è deciso di fatto dalla segreteria del partito? I politologi da sempre fanno idealmente a botte per dirimere la controversia.

Ultima importante questione: la riforma riguarda solo il numero dei parlamentari, e non modifica in alcun modo i meccanismi di funzionamento del sistema istituzionale. La riforma Renzi-Boschi, l’ultima tentata in ordine di tempo, non solo diminuiva il numero dei parlamentari ma apportava delle modifiche radicali al bicameralismo perfetto che caratterizza, pressoché unico tra le democrazie occidentali, il sistema istituzionale dello stato italiano.

Iter legislativo, fiducia al governo, poteri del premier, rimarranno invece esattamente quelli che sono oggi. Tra le conseguenze della riduzione dei parlamentari, dovranno essere riviste le unità territoriali in cui si eleggono i deputati. Se ne dovrà di fatto ridurre il numero, dato che ogni collegio elegge un solo deputato.

Allo stesso modo dovranno essere modificate le composizioni numeriche delle commissioni parlamentari, il luogo istituzionale ove si svolge il processo legislativo, le quali ora dipendono anch’esse dal numero degli attuali parlamentari.

Procedimenti tecnici si dirà, se non fosse che il cosiddetto jerrymandering, ovverosia l’adattamento delle circoscrizioni elettorali in maniera di privilegiare una parte rispetto all’altra, sia un comune strumento di azione politica che di tecnico non ha assolutamente nulla.