Capisco l’emergenza, ma qua rischiamo di perdere un’occasione. Il Coronavirus, nella disgrazia, potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova era nella riorganizzazione delle faccende della vita. Tutti i grandi drammi sociali (guerre, carestie, epidemie) hanno poi dato una sterzata all’ordine delle cose. Intanto però siamo nel pallone. Il governo ordina la chiusura delle scuole sine die, eppure questo, nel 2020, non dovrebbe significare per forza lo stop alle lezioni. Mi chiedo infatti se nell’era digitale, nella quale anche un bambino di sei anni sa usare qualsiasi diavoleria tecnologica, non si potrebbero tranquillamente organizzare le lezioni in collegamento web (l’Università di Bologna lo sta già sperimentando). Non si può pensare di fermare l’istruzione, non sarebbe giustificabile neanche per un virus. Sarebbe una sconfitta anche simbolica e non solo pratica, specie in un’epoca in cui un altro virus ci ammorba: l’analfabetismo funzionale.
Idem sul lavoro: in Italia, a differenza del nord Europa, lo smart working non ha mai attecchito. Per una serie di motivi: in primis la mancanza di fiducia del “padrone” nei confronti del “lavoratore” (perdonate i termini novecenteschi) e una concezione filosofica del lavoro quantitativa (basata sulle ore) e non qualitativa che fa leva sugli obiettivi. Tutto questo è figlio di una cultura – questa sì davvero novecentesca – nata dalla guerra politica tra capitale e lavoro, dal conflitto permanente tra le istanze liberiste e socialiste. Da un lato il controllo, dall’altro i diritti. 

L’Università degli Studi di Verona

Sarebbe ora di voltare pagina, anche perché già la crisi economica del 2008 aveva cambiato il quadro. In un mondo interconnesso e globale (e capite bene che non è il solito pippone retorico, il Covid 19 dimostra che siamo interdipendenti) serve mutare l’approccio organizzativo della nostra economia e l’impostazione delle nostre aziende. Lo smart working poi limiterebbe gli spostamenti, il traffico e ridurrebbe l’inquinamento più di tante ordinanze antismog che sono acqua fresca. Insomma alzerebbe (e non di poco) la qualità della vita dell’individuo, l’equilibrio tra performance professionale e tempo libero e migliorerebbe anche la qualità del lavoro. 
Cambieremo? Dipende. Il fatto è che non siamo… intelligenti. E’ terribile da dire, ma credo che un cambio di mentalità ci sarà solo se l’emergenza durerà un periodo significativo e ci troveremo con l’acqua alla gola. Nel Paese degli individualismi, le nuove abitudini possono nascere solo coattivamente.