Ogni evento traumatico subito dalla coscienza occidentale negli ultimi lustri ha lasciato dietro di sé l’ammonimento che “le nostre vite non saranno più le stesse” e l’epidemia di Covid-19 non ha fatto eccezione, pure in campo architettonico. Un illustre “archistar” come Massimiliano Fuksas ha infatti concepito una sorta di prontuario in quattro punti per prefigurare come cambierà la casa del dopo-Covid. I quattro punti vertono sulla necessità di attrezzare le nostre case con kit sanitari, di pensare ad una sanità diffusa sul territorio, di avere adeguati spazi comuni di relazione nei nostri edifici e di sanificare in maniera ottimale l’aria.

Ammetto di essermi messo a ragionare su questo prontuario con lo spirito dell’umile architetto di provincia che pensa al famoso aneddoto su Frank Lloyd Wright, un maestro dell’architettura del Novecento, il quale al cliente che lo chiamava per lamentarsi dell’acqua che durante le piogge gocciolava sulla scrivania, nella casa nuova da lui progettata, rispondeva: «Sposti la scrivania».

La prima osservazione da fare leggendo questo prontuario è che sembra partire dal presupposto che l’emergenza Covid-19 sia in qualche modo “istituzionalizzata” e destinata a durare ad oltranza. Altrimenti non si spiega perché dovremmo attrezzare le nostre case con presidi specifici “anti Covid”, tra i quali un “attacco per l’erogazione di ossigeno” (!), attrezzo mica semplice da piazzare negli appartamenti dove vive l’80% della popolazione italica.

Oltretutto un conto è attrezzare una camera da letto di casa come un reparto di terapia intensiva, e un altro è saperlo far funzionare, dato che il personale che vi è impiegato è composto da professionisti altamente specializzati, salvo non voler far frequentare a tutti i cittadini corsi di medicina.

Molto interessante invece è l’idea della telemedicina e della possibilità di collegarsi tramite il web con il medico per trasmettergli i nostri parametri e consentirgli di fare delle diagnosi a distanza. Grande risparmio di tempo e di risorse, purché sia garantita la privacy nella trasmissione dei dati. Qualche perplessità va sull’enfasi utilizzata per sottolineare la necessità di realizzare nei nostri edifici degli spazi comuni per attività collettive. Se foste pure voi architetti, potreste cogliere appieno quanto i miei colleghi di orientamento “progressista” siano affascinati dalla parola “collettivo”. Fascinazione che deriva probabilmente dal retaggio della loro matrice culturale e soprattutto dall’idea che l’architettura debba avere finalità “etiche”.

Dal falansterio di Fourier fino all’Unità di Abitazione di Le Corbusier, passando per i duri realisti tedeschi della “Nuova Oggettività”, una parte importante del pensiero architettonico si è concentrata sull’Existenzminimum, comprimendo gli spazi individuali in favore quelli collettivi, per trasformare la vita della specie umana in qualcosa di simile a quella delle api negli alveari.

In realtà l’esperienza che facciamo tutti i giorni dell’abitare è diametralmente opposta e si concentra soprattutto sui suoi aspetti individuali piuttosto che su quelli collettivi. L’abitare è un’esperienza prettamente individuale, collegata con la necessità di possedere un ambito quanto più privato e protetto rispetto all’esterno sia possibile, ove l’individuo può rilassarsi, trascorrere parte del tempo libero, dedicarsi alle interazioni con i proprio famigliari piuttosto che altro.

La maggior parte delle nostre interazioni sociali avviene al di fuori della residenza, negli spazi collettivi della città, e costituisce parte di quell’insieme di relazioni pubbliche che danno senso alla città stessa intesa come fenomeno sociale, senza le quali non esisterebbe il concetto di “urbano”.

Non si capisce poi il motivo per il quale un’architettura a prova di Covid-19 dovrebbe prevedere spazi collettivi ove il rischio di contagio aumenta a causa delle maggiori interazioni sociali. Per non parlare della impossibilità pratica di ricavarli in fabbricati come sono i nostri condomini residenziali.  

Tralascio il tema della sanità “diffusa” in quanto non prettamente architettonico e su quello del condizionamento e trattamento dell’aria a prova di virus mi permetto di dire, umilmente, che è poco concreto. Per aver edifici a prova di virus occorre realizzare sistemi chiusi ermeticamente, che peraltro esistono già, basta pensare alle torri high tech in vetro e acciaio delle città nordamericane o asiatiche, e dotati di sistemi di climatizzazione costosissimi dal punto di vista energetico e impossibili da utilizzare nei nostri edifici, a meno che non si eseguano imponenti lavori di ristrutturazione per trasformarli in scatole a tenuta stagna. Un’idea affinché sia sensata deve avere una caratteristica molto semplice: la sua realizzabilità. 

Quello che più mi ha lasciato perplesso delle proposte di Fuksas però, è stato che le sue proposte sembrano essere indifferenti a ragionamenti attinenti lo spazio dell’abitare, pur essendo formulate da un architetto. L’architettura è prima di tutto la composizione degli spazi attraverso l’uso dei volumi e della luce, tutto il resto è accessorio.

Al Covid-19 dobbiamo almeno una cosa: aver fatto rientrare nel dibattito architettonico il tema della qualità dell’abitare dal punto di vista spaziale. Per troppo tempo la “qualità edilizia” è stata declinata unicamente in termini di prestazioni tecnologiche, ignorando quello delle prestazioni dimensionali. Il risultato è che abbiamo edifici nuovi correlati da una montagna di certificazioni, che sono efficientissimi dal punto di vista energetico, ma dove non si sa dove mettere un asse da stiro perché le lavanderie sono chiuse e dobbiamo stirarci da noi i panni. Oppure dove gli armadi-ripostiglio devono essere messi all’aperto sui terrazzini perché non trovano posto all’interno dell’alloggio.

Se una cosa abbiamo provato sulla nostra pelle durante i mesi di lockdown è quanto sia importante abitare ambienti di dimensioni adeguate. Ad esempio, quanti di noi vivono in alloggi che hanno spazi che possono essere utilizzati come zona studio per lavorare? Quanti obbligati all’home working hanno dovuto litigarsi postazioni di lavoro precarie, realizzate dove capita, in appartamenti non cablati e soggetti all’arbitrio della ricezione del Wi-Fi? E se una cosa il Covid-19 ci potrà lasciare in eredità, al di là della retorica di circostanza, sarà proprio l’espandersi della pratica del lavoro da casa, che potrebbe davvero essere uno dei temi forti del futuro prossimo.

Ma gli spazi dove viviamo sono pronti per questa sfida? Pensiamo ai parametri dimensionali minimi previsti dalla normativa edilizia: camere singole da 9 mq e doppie da 12. Ora provate a mettere due liceali che seguono la didattica on line in 12 mq, e che magari condividono l’alloggio con due genitori che lavorano in home working e poi mi direte. 

Usereste un cellulare vecchio di dieci anni? Molto probabilmente no, a meno che non siate seguaci delle fumose teorie sulla “decrescita felice” di Serge Latouche, perché non è più adeguato alle vostre attuali esigenze. Eppure, molti di noi vivono in abitazioni che spazialmente non sono in grado di far fronte alle richieste in termini di prestazioni spaziali che il modo di vivere del futuro molto probabilmente ci presenterà. 

Spazi di dimensioni adeguate ci consentono di avere una maggiore flessibilità di utilizzo per far fronte a necessità imprevedibili: ad esempio pensiamo all’ambiente di ingresso, biglietto da visita della casa borghese pressoché scomparso nell’edilizia moderna in quanto considerato metratura “inutile”. Ebbene pensate di metteteci una bacinella con acqua e candeggina per sanificare le scarpe una volta rientrati e di poterci lasciare gli abiti, depositandoli in un luogo facile da sanificare, senza essere invece costretti a girare per tutta la casa tenendoli addosso, con il rischio di spargere potenziali elementi patogeni. Avrete già il vostro filtro “anti Covid” con il non trascurabile vantaggio di non aver bisogno di scomodare astruse teorie socialistoidi per averlo.

Poco sopra abbiamo detto che per poter pesare la concretezza di un’idea occorre determinare se questa sia realizzabile, e sappiamo benissimo come l’incremento dei prezzi degli immobili renda difficoltoso offrire soluzioni che siano economicamente compatibili con le possibilità finanziarie di buona parte del potenziale mercato.

Qualche tempo fa, parlando di recupero e riuso del patrimonio edilizio esistente su queste pagine virtuali avevamo provato ad avanzare una soluzione che andasse anche nella direzione di un’ottimizzazione finanziaria dell’intervento edilizio, a cui rimandiamo. Quelle considerazioni sono una possibilità sulla quale riflettere anche sulla scorta di quanto abbiamo sperimentato con l’emergenza Covid-19.