Nel 2018 un gruppo di architetti inglesi, partendo dal presupposto che gli edifici nel loro ciclo di vita dalla costruzione alla loro “messa in funzione” rappresentano il 40% delle emissioni di CO2 dell’atmosfera, ha lanciato un manifesto in undici punti chiamato “Architects declare” per aumentare la consapevolezza della pratica professionale rispetto ai temi dell’emergenza climatica e della biodiversità che sono riconosciuti essere «un’urgenza del nostro tempo». La dichiarazione è stata rilanciata anche in Italia ed è disponibile sull’omonimo sito.

In questo manifesto, ben celate tra una serie di dichiarazioni di principio piuttosto fumose del genere per il quale noi architetti andiamo pazzi, si trovano delle suggestioni assai interessanti che possono essere proiettate nella pratica di un professionista mainstream. In particolare mi riferisco al sesto punto del manifesto nel quale si auspica di «Riqualificare gli edifici esistenti favorendone un uso prolungato come alternativa più efficiente alla demolizione e alle nuove costruzioni laddove sia possibile». L’indicazione è assai interessante perché per la prima volta nel dibattito sull’architettura fa la sua comparsa l’idea della costruzione edilizia intesa non come un qualcosa di statico, ma come un processo dinamico che parte dalla posa della prima pietra e prosegue durante la gestione del cantiere fino al momento in cui viene abitato o utilizzato.

Vediamo di capire bene come stanno le cose. I temi della sostenibilità, dell’ecocompatibilità e della rinnovabilità delle fonti di energia sono ormai diventati famigliari a qualsiasi persona mediamente interessata a come va il mondo, se non altro per quanto siano all’ordine del giorno sui media. In particolare, sappiamo come le fonti di energia cosiddette rinnovabili, come ad esempio l’eolico o il fotovoltaico, siano ecofriendly perché consentono di abbattere l’emissione di CO2 derivanti dai combustibili fossili. Questo per un impianto “in esercizio”, ma vi siete mai posti il problema della sua realizzazione? Quanta energia e quante risorse servono per realizzare un impianto eolico ad esempio? Nella mia carriera professionale ho avuto la fortuna di seguire la realizzazione di diversi campi eolici e vi assicuro che il problema me lo sono posto. Per realizzare questo tipo di opera, che spesso è arroccata sul cocuzzolo di qualche montagna sperduta nel nulla, occorrono mezzi speciali. Dumper e macchine movimento terra i cui motori 11.000 di cilindrata bruciano in un giorno la quantità di gasolio che il vostro SUV Euro4 brucia in sei mesi. Le torri eoliche poggiano su fondazioni in cemento, e vi assicuro… sono dannatamente grandi. Avete presente un disco volante? Una roba del genere. Per fare una tonnellata di cemento occorrono 5.100 litri d’acqua. Le fondazioni delle torri poi contengono acciaio che è lo stesso materiale di cui sono fatte le torri. Ebbene per produrre una tonnellata d’acciaio occorrono 235.000 litri d’acqua, una bella vasca da bagno. Più ovviamente la CO2 emessa nel suo processo di produzione. Io non so se qualche ingegnere benintenzionato abbia mai fatto un bilancio ambientale “costi/benefici” di un impianto eolico, di certo non l’abbiamo fatto noi architetti, allergici come siamo ai numeri. Siamo esteti noi, mica contabili. Sono piuttosto convinto che i risultati sarebbero sorprendenti.

Dovete immaginare lo stesso processo e gli stessi output nel caso della costruzione (o della demolizione) di un qualsiasi edificio. Macchine inquinantissime che bruciano energia. L’industria del calcestruzzo poi, ingrediente fondamentale nel piatto finito costituito dall’edificio, da sola è responsabile del 40% delle emissioni di CO2, più di auto e aerei. Se fosse un Paese, sarebbe il terzo più grande produttore di CO2 dopo USA e Cina. Inoltre indovinate un po’? gli edifici residenziali sono responsabili del 40% del fabbisogno di energia e del 33% delle emissioni di CO2 nell’atmosfera. Tenetelo bene a mente quando qualche sindaco “illuminato” per abbattere le polveri sottili vi costringerà a lasciare in garage il vostro SUV Diesel Euro4. Soprattutto nel momento in cui entrerete in cabina elettorale. In Italia ci sono 12,2 milioni di edifici, il 56% costruiti prima del 1974 (anno di emanazione delle prime norme antisismiche) e del 1976 (anno di emanazione delle prime norme sull’efficienza energetica).

Tradotto: c’è un immenso patrimonio edilizio da riqualificare, possibilmente senza demolirlo. Questo è il punto importante e la suggestione che #architectsdeclare ci consegna. In un Paese come l’Italia avviato sulla strada del declino demografico è ragionevole pensare che la richiesta di nuove volumetrie per uso residenziale non sarà prioritaria in futuro. Inoltre, secondo dati del 2018, abbiamo qualcosa come sette milioni di abitazioni vuote. Un immenso patrimonio edilizio inutilizzato e inefficiente energicamente. Però con alcuni grandi vantaggi. Buona parte degli edifici costruiti tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, anche quelli di edilizia economico popolare, hanno delle ottime caratteristiche che il dibattito sull’efficienza energetica spesso ha messo in secondo piano: sono assai spaziosi. L’aumento dei valori degli immobili negli anni ha spinto le aziende a realizzare appartamenti con standard dimensionali minimi. Camere matrimoniali da 14 mq, camere doppie di 12, ambienti a giorno di 20 mq in cui si deve cucinare, mangiare e rilassarsi con l’accesso diretto dall’esterno, senza più il filtro dell’ingresso che nelle case borghesi del boom economico era il biglietto da visita di una residenza. Di importantissimi spazi accessori come ad esempio lo studio, la lavanderia e il ripostiglio manco a parlarne.

Tutti noi che oggi stiamo vivendo l’esperienza di una cattività forzata a causa dell’epidemia di Covid-19 ci rendiamo conto di quanto aver a disposizione degli spazi di dimensioni congrue stia diventando vitale. Pensiamo per un attimo all’Home Working, modalità lavorativa che presumibilmente prenderà sempre più piede anche dopo l’emergenza Coronavirus. Quanti di noi hanno spazi adeguati per lavorare nella propria abitazione? Inoltre, cosa da non sottovalutare, gli edifici in questione spesso sono esteticamente di buona qualità e disposti in quartieri interessanti, immediatamente a ridosso del centro città. Perché costruire nuovo volume quando ne esiste già un’ampia riserva e per giunta ottimamente disposta? Abbiamo visto come demolire e ricostruire ex novo un edificio sia un’attività che ha un forte impatto sull’ambiente, in termini di energia impiegata, risorse necessarie e inevitabili output di carattere ambientale. Quindi la suggestione più interessante e più immediatamente spendibile nella pratica professionale che a mio avviso #architectsdeclare lancia è quella di ripensare il riutilizzo dell’immensa quantità di contenitori che abbiamo a disposizione, attraverso una vasta operazione di riqualificazione non distruttiva anche (perché no?) con l’intervento della pianificazione che per azioni di questo tipo potrebbe prevedere iter agevolati, procedure più snelle e minori oneri. Ciò minimizzerebbe fortemente l’output di sostanze inquinanti e massimizzerebbe l’utilità del patrimonio edilizio esistente, del quale verrebbe allungato il ciclo vita con costi minori rispetto alla sua completa sostituzione, attraverso la sua riqualificazione energetica. Con una buona dose di retorica, potremmo dire che è una sfida per l’architettura del III° millennio.