Finalmente è stato diffuso il testo del Decreto “Scuola 2020” – coincidente con quanto detto dal Ministro Lucia Azzolina alla trasmissione condotta da Fabio Fazio “Che tempo che fa” – e conferma quanto già “profetizzato” da questo giornale: se non si rientrerà prima del 18 maggio (e non sono in molti a scommetterci), tutte le questioni saranno rimandate al nuovo anno, con il congelamento dei debiti formativi del primo quadrimestre e con una promozione di massa per le classi intermedie; una tesina per l’esame di terza media e un esame di Stato “light”, solo orale, magari online per i ragazzi del quinto anno delle scuole superiori. Non si specifica, però, un elemento fondamentale, ovvero il valore della valutazione con la Didattica a Distanza (DAD), anzi: la valutazione terrà conto dell’impegno più che dei risultati raggiunti, sarà più formativa che sommativa. Allo stato attuale, il Ministero dell’Istruzione non poteva fare di più. Vediamo il perché.

Partiamo dal testo precedente: il Ministero non aveva preteso dai docenti la Didattica a Distanza nella nota U.0000278.06-03-2020, ma aveva segnalato in modo vago che «è essenziale, nella definizione delle modalità di intervento, il più ampio coinvolgimento della comunità educante». Non l’aveva imposta, perché sapeva di non poterlo fare: infatti, il Decreto Legislativo 16 aprile 1994, n. 297 stabilisce che imporre metodologie didattiche è illegittimo e potrebbe essere, addirittura, considerato abuso d’ufficio in quanto lesivo della libertà d’insegnamento. Ora, nel nuovo testo, la “assicura”, lasciando però al docente la scelta della modalità (registrazione, live…).

Il Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina

Perché il Ministero non ha dato valore alla valutazione online? Perché dovrebbe prima assicurare uniformità di accesso e strumenti a tutto un sistema che, invece, resta vincolato a uno sforzo volontario e ineguale, perché legato alle possibilità del singolo docente: deve possedere un pc, una rete a casa e deve avere un minimo di dimestichezza con l’informatica o l’elasticità mentale (e l’età) per adeguarsi. Nonostante sin dalla legge 107, comma 137, 17 si dica che «lo Stato promuove lo sviluppo della cultura digitale, definisce politiche di incentivo alla domanda di servizi digitali e favorisce l’alfabetizzazione informatica» e pure nel Comma 113,15-bis che «nei concorsi per titoli ed esami per l’accesso ai ruoli del personale docente della scuola secondaria può essere attribuito un punteggio aggiuntivo per il superamento di una prova facoltativa sulle tecnologie informatiche», la realtà è che molte scuole non hanno mai fatto un vero percorso di formazione e informatizzazione dei docenti i quali, nel 2017, per il 59% erano ultracinquantenni. Certo, strada se ne è fatta dal 2015, quando il 25% degli insegnanti affermava di non conoscere bene nessuno strumento informatico: quanto si sta facendo, tuttavia, ha dell’incredibile considerando i mezzi e l’età media, anche perché, a causa del discredito sociale e degli stipendi ridotti rispetto la media europea, la capacità di attirare giovani di qualità è limitata.

La buona volontà mista all’entusiamo, tuttavia, non risolve l’altra metà della questione, ovvero il divario tra gli studenti: l’Anief (Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori) sottolinea che, tra le famiglie con almeno un figlio con meno di 18 anni, il 75% non ha un computer fisso; il 50% ha un pc portatile; il 33% ha un tablet. Il vero, guaio però, è che il 25% non possiede la banda larga (dato ISTAT 2018) e che i dati peggiorano al Sud, ove c’è meno propensione alla connessione (il 62,2% del sud contro il 72,3% del nord, ISTAT 2018); problema questo già delle scuole pubbliche che in Lazio, Campania, Basilicata e Calabria hanno una minore disponibilità di connessioni ultrabroadband, ad esempio (AGCOM, 2019, Educare digitale). Non bastasse, vi è una stretta correlazione tra titolo di studio dei genitori e accesso alla rete: il 58,2% delle famiglie che non ha Internet ne è privo perché non sa usarlo e il 21% non lo considera uno strumento utile (ISTAT 2018). Dunque, chi ha la ventura di nascere in una famiglia con un curriculum scolastico ridotto parte già svantaggiato. È solo una questione di natura informatica? No, è, come visto, una questione anche normativa, legata a decisioni degli organi collegiali. Lo segnala anche la Gilda: «è altresì necessario evidenziare che durante questo straordinario periodo di «sospensione dell’attività didattica» la Nota congiunta n. 279/2020 chiarisce che «sono sospese tutte le riunioni degli organi collegiali in presenza fino al 3 aprile 2020» e, per quanto sopra detto, ancor di più non sussiste per i docenti alcun obbligo di permanenza a scuola, né possono essere obbligati all’effettiva presenza di servizio, nemmeno telematica, con riorganizzazione del loro orario settimanale. Perché, a fronte della normativa vigente, i docenti che si prodigano nella DAD lo stanno facendo a titolo volontario (nonostante ciò che afferma il decreto) poiché la sospensione dell’attività didattica non la legittima ma, anzi, la impedirebbe in mancanza di nuove norme che ancora non ci sono, stante la latenza dei Collegi Docenti. Interessante il paragone usato dalla FLC CGIL per spiegare la situazione: «È un po’ come se, a fronte della sospensione dell’attività giudiziaria, i processi si tenessero via web e avvocati e giudici si tenessero in contatto tra loro utilizzando mezzi e utilità private». Magari andrebbe tutto più spedito, ma il valore legale delle sentenze sarebbe zero.  

Concludendo, il decreto, con le varianti rispetto alle bozze, cerca di salvare il salvabile di un’esperienza importante per i ragazzi – che mantengono un contatto con la scuola – e per le famiglie, che in qualche modo vengono alleggerite o comunque coinvolte; ma è evidente che se per tutto lo sforzo profuso il metro di valutazione sarà genericamente l’impegno e la partecipazione, la motivazione di molti alunni sarà penalizzata. D’altronde, di meglio non si poteva fare: la didattica e la valutazione devono seguire necessariamente le regole del procedimento amministrativo, pena la nullità. Tutto questo investe interrogazioni, elaborati, compiti che, in un momento come quello attuale, avvengono in un vuoto normativo.

In attesa di sapere se le scuole riapriranno o meno in autunno, rimane comunque un dato: la DAD è stata un’esperienza molto interessante ma problematica che, per diventare davvero alternativa alla presenza in classe, ha bisogno di un aggiornamento normativo e regolamentare che non può non passare dalla contrattazione coi sindacati (e visti i rapporti col Ministro, si parte già in salita). E ci spinge a ragionare su due questioni: l’atavica sfida dello Stato al divario sociale e il senso della valutazione, che torna ora a giudicare l’impegno dopo anni di ossessiva ricerca dell’oggettività delle verifica e della misurabilità della competenze.