«Vogliamo tornare a casa.» È un appello semplice e senza mezzi termini quello dei cinque alpinisti veronesi volati in Afghanistan per un progetto solidale il 21 febbraio scorso, in tempi non sospetti – quando dell’emergenza coronavirus non c’era traccia (proprio il 21 febbraio sera ci fu il primo decesso per Covid-19 a Vo’ in provincia di Padova, nda) – e bloccati da inizio marzo in Tajikistan. Per Giuliana Steccanella, Anna Paola Perazzolo, Fabio Bullio, Giorgio Bonafini e Andrea Micheli il futuro è quanto mai incerto e al momento non ci sono ancora informazioni su un loro eventuale rimpatrio. Abbiamo raggiunto al telefono Anna Paola a cui abbiamo chiesto la loro attuale condizione per accogliere il loro appello di aiuto.

Anna, prima di tutto come state?

Tre dei cinque alpinisti
durante la quarantena

«Tutto sommato stiamo bene, siamo in un Paese meraviglioso, ma a questo punto non vediamo l’ora di tornare a casa. Siamo alloggiati in una struttura ricettiva del Tajikistan e siamo a 12 ore di macchina da Khorog, dove si trova l’aeroporto. Abbiamo fatto la quarantena in un ospedale del luogo, al nostro rientro dall’Afghanistan all’inizio di marzo a conclusione appunto del progetto che ci ha visti impegnati in questo viaggio. Ora, però, le frontiere sono chiuse, i voli cancellati, e noi non sappiamo quando riusciremo a ripartire. Qui non sembrano esserci casi di coronavirus, ma se ci dovessero essere per noi sarebbe molto difficile affrontare l’emergenza, in un Paese dai complessi equilibri come questo.»

Mi racconta la vostra vicenda, da quando siete partiti per il vostro progetto fino ad oggi?

«Siamo arrivati in Afghanistan dopo una partenza tranquilla da Venezia con scalo a Istanbul, per insegnare scialpinismo a cinque ragazzi afghani, un progetto di solidarietà nato dalla sezione Cai Cesare Battisti di Verona grazie a Cristiano Tedeschi, in un’attività lunga tre anni e arrivata ora a metà percorso. Un modo per creare una microeconomia, rendere le persone coinvolte indipendenti e pronte ad accompagnare turisti scialpinisti stranieri e farne una fonte di reddito, formandole come guide e accompagnatori locali competenti e in grado di fornire un buon servizio ai turisti che piano piano si stanno addentrando in questo Paese montano e ricco di luoghi da visitare. Eravamo totalmente isolati a livello di comunicazione esterna, e al nostro rientro in Tajikistan a causa del virus siamo stati messi subito in quarantena e per 14 giorni siamo stati isolati in una struttura ospedaliera. Non di certo un ospedale come siamo abituati a pensarlo in Italia, ma eravamo completamente soli e questo ci ha permesso di essere in totale sicurezza. Il punto è che se ci fossero state altre persone non sarebbe stato un luogo sicuro, la promiscuità e le condizioni igieniche non sono ottimali per un isolamento sanitario dove i bagni sono in comune e gli spazi condivisi.»

Il Tajikistan e i Paesi confinanti

Siete in contatto con la Farnesina? Avete notizie sul vostro futuro?

«Finito il progetto afghano al nostro ritorno vicino al confine del Tajikistan abbiamo compreso la gravità della situazione ed è stata una corsa contro il tempo per raggiungere Dusambe per prendere il nostro volo di rientro. Il confine era già chiuso e si è reso necessario l’intervento dell’ambasciata di Tashkent, competente sia per lo stato dell’Uzbekistan che per il Tajikistan, con la promessa di fare il periodo di quarantena. Abbiamo così visto le possibilità di rientrare pian piano svanire fino al 21 marzo con l’uscita dalla struttura di isolamento e tutti i voli cancellati. In tutto questo tempo non siamo mai stati soli, dalle persone che ci conoscono a casa, alla scuola di scialpinismo, fino all’interessamento da parte della Farnesina, ma non abbiamo ancora certezze.»

Che notizie avete del coronavirus nel posto dove siete ora?

«Non abbiamo ancora mai sentito di casi nel Paese anche se tutti gli Stati intorno che confinano presentano casi di coronavirus. Il problema è che per quanto un paese sia interessante e le persone che incontriamo ogni giorno siano fantastiche, qui ci sono oggettive difficoltà se si dovesse diffondere il contagio.»

Le montagne del Tajikistan viste dall’alto

Cosa chiedete ora allo Stato italiano?

«Sicuramente di poter tornare. Da fuori l’Italia sembra essere il posto meno invitante dove andare in questo momento. Ma per noi è il posto più bello del mondo, dove ci sono i miei figli, le nostre famiglie e il nostro lavoro. Qui le condizioni sono accettabili ma è inverno, le tubature dell’acqua ghiacciate e se dovesse arrivare il coronavirus non sarebbe un posto dove fare in sicurezza l’isolamento. Inoltre, le nostre risorse economiche per restare fuori non sono infinite. Chiaro che i problemi sono altri e finché stiamo bene non ci sono problemi… ma vogliamo tornare a casa.»

Anna Paola e i suoi compagni di viaggio hanno lasciato i ragazzi in Afghanistan con tanti progetti, idee per il futuro e promesse. Oggi le loro cinque famiglie in Italia sono in apprensione e loro stessi non sono immuni neanche a distanza agli affetti e alle storie di amici e conoscenti oggi colpiti dal coronavirus.