La vigilia di Natale Boris Johnson annunciò trionfante agli inglesi di aver raggiunto un accordo con la UE per quella Brexit che ha tenuto occupati i relativi emissari per molti mesi. Forse perché l’accordo si dice esser stato raggiunto a cena, forse perché è un simpatico pacioccone, il premier inglese definì l’accordo “a cakeist treaty”. Il riferimento alla torta viene da un modo di dire anglosassone simile al veronese “ovo, galina e … caldo”: diceva insomma che in UK avrebbero avuto la torta e pure la pancia piena, alludendo al fatto di aver eliminato quella fastidiosa massa di regole europee pur mantenendo tutti i vantaggi storici nel commercio. Molti inglesi si saranno bevuti la storiella, mentre altri – conoscendo il rapporto contrastato del premier con la verità – avranno dato almeno il beneficio del dubbio.

Un errore in entrambi i casi, come mostra la realtà giornaliera di chi vuole commerciare dal Regno Unito, costretto a compilare numerose dichiarazioni doganali in più, con aggravio dei costi e le ovvie ripercussioni su tempi e profitto. Per usare l’adorabile paragone di Johnson, chi volesse importare dalla Francia una torta alla panna, potrebbe riceverla già acida, tanti sono i blocchi e i ritardi alla frontiera. Sono diventati virali i video della dogana olandese che confisca preziosi tramezzini a una banda di motociclisti britannici, merce non esportabile in UE, accogliendoli con un “benvenuti nella Brexit, sir!”. Potrebbe far sorridere (e lo fa) ma è il lato buffo di una questione molto seria.

Gli inglesi cominciano a capire la portata del conto che dovranno pagare con la decisione di lasciare la UE, al di là di qualsiasi retorica politica, sulla loro pelle. Pagano i pescatori scozzesi e gli allevatori nordirlandesi, che non sono in grado di esportare i loro prodotti; ci rimettono i porti gallesi, che risentono della nuova burocrazia con un crollo dell’attività che avrà ripercussioni anche sull’occupazione. Che dire poi della City of London, hub finanziario di importanza globale, che occupa(va) un milione di persone e sta già vedendo sparire tutte le banche straniere, ricollocate in Paesi UE a basso costo del lavoro, e un ridimensionamento di quelle domestiche. Numerose ditte medio piccole, già messe in ginocchio dalla crisi sanitaria, rischiano di saltare, con buona pace dei Tories che da sempre dicono di averla nel cuore, la vera anima UK. La retorica della Brexit, quella liberazione dalle catene europee che soggiogavano lo sviluppo dell’economia inglese, si è rivelata proprio il contrario e le società commerciali, di trasporti e logistica si trovano soffocate da un’enormità di regole e adempimenti burocratici come certificati di conformità, sanitari e di origine, dichiarazioni IVA. Scartoffie che avevano facilmente dimenticato, nei rapporti fluidi e semplificati con gli altri paesi UE, stimate su base annua in 215 milioni di documenti in più e un costo complessivo di oltre 7 miliardi di sterline (quasi 8 miliardi di euro).

La situazione è così pesante che nei giornali inglesi sono apparsi titoli su società di consulenza (anche pubbliche) che consigliano e si offrono di facilitare lo spostamento di attività in Irlanda o in altri Paesi europei per by-passare la burocrazia. Questo è forse uno dei più grandi paradossi di Brexit: una strategia ideata e spacciata come strumento per rendere “UK great again” (ah no, quello era un altro) finisce con agenzie governative che suggeriscono di licenziare in patria e aprire all’estero. Altro che tenersi la torta e riempirsi la pancia, Mr Johnson, qui c’è del digiuno in arrivo. Certo, probabilmente le cose si sistemeranno con il tempo, il governo sta assumendo personale di frontiera e pian piano si tornerà a un regime di quasi normalità, ma il prezzo da pagare sarà tutto sulle spalle inglesi; sembra quasi di poter sentire gli ululati della signora Thatcher, che oltre 30 anni fa fu tra i pionieri del mercato unico.

I thinktank e gli esperti macroeconomici avevano anche lanciato qualche timido avvertimento sui possibili esiti di Brexit ma la discussione era talmente infervorata su altri ben più spendibili temi che è passato in secondo piano e molti inglesi si trovano ora con il didietro al freddo e neanche una gallina per fare il brodo. Impensabile che all’economia si potesse dedicare la giusta attenzione di fronte ad argomenti come l’immigrazione selvaggia di europei scatenati che rubano il lavoro o il principio aulico e intrigante del recupero della sovranità, queste sì sono cose importanti. Nel frattempo, le aziende inglesi avranno costi maggiori, alcune spariranno, altre cercheranno soluzioni spostando l’export verso altri Paesi o spostando le proprie attività. Non esattamente il trionfo anticipato per il commercio inglese che andrà necessariamente scemando, almeno finché non verrà discusso un nuovo accordo, per il quale la UE si presenterà al tavolo con il sorriso di un gatto col topo sotto la zampa.

Come si diceva, l’economia e le sue sorti sono argomenti poco vendibili al grande pubblico elettorale, sono temi tecnici pieni di numeri e noiosi, non vengono bene sui meme nei social media tanto amati dai populisti anche domestici. Ma, oltre alle problematiche socio-economiche, sono già avvertibili rimbalzi a livello politico: sia il Parlamento scozzese che quello dell’Ulster hanno decisamente rifiutato l’accordo. La premier scozzese Nicola Sturgeon ha organizzato una dichiarazione d’amore verso l’Europa illuminando le finestre dell’Holyrood e ricordando come la Scozia avesse sempre rifiutato la Brexit, anche nelle urne, e come l’accordo raggiunto possa trasformarsi in una calamità sociale. A Stormont, sede del parlamento nordirlandese, si è vista una coalizione senza precedenti: Sinn Fein (il principale partito nazionalista) e gli Ulster Unionist allineati nel ritenere DUP (partito marcatamente unionista) responsabile per quello che potrebbe diventare un “disastro” per la scomparsa dei fondi UE e le nuove barriere doganali da introdurre con l’Irlanda europea. La fuga dalla UE potrebbe tradursi in un separatismo così poco british, accidenti.

Ora che Brexit è qui, sembra non piaccia più a nessuno. Nemmeno a chi l’aveva sostenuta fin dalla prima ora. È emblematico il caso, d’impatto meno pesante per l’operaio inglese ma sicuramente più mediatico, della lettera aperta al Governo firmata da un gruppo di artisti britannici, tra cui Elton John e Sting, che lamentano il grave danno che Brexit farà al mondo della musica, viste le difficoltà di poter organizzare un tour europeo senza doversi accollare migliaia di documenti e liberatorie, da moltiplicare per ciascuno stato di interesse. La lettera è stata firmata, piuttosto sorprendentemente, anche da Roger Daltrey, storico cantante del gruppo mod The Who e Brexiter appassionato, che aveva intasato i suoi social con l’invito a votare Leave e sostenuto anche economicamente la campagna pro-Brexit. Piccato per l’interesse dei giornalisti al suo improvviso cambio di casacca, Daltrey ha dichiarato: «Non è cambiata la mia posizione sulla Brexit, sono felice di essere libero da Bruxelles, ma non dall’Europa; avrei preferito una riforma della UE che accogliesse le istanze inglesi». Anche lui, insomma, come Johnson vorrebbe sia la torta che la pancia piena. Forse da domani vedrà Brexit sotto una nuova luce e si ritroverà a canticchiare da solo, sotto la doccia, il ritornello di una sua famosissima canzone “oh no, won’t get fooled again!” (eh no, non mi fregano di nuovo – nda).