La capacità di lettura e di calcolo matematico dei quindicenni di oggi, rispetto ai loro coetanei di dieci anni fa, è rimasta sostanzialmente invariata, anche se risultano significativamente al di sotto della media europea. Questo è ciò che emerge da “Pisa 2018”, un sondaggio internazionale promosso dall’OCSE – l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa – con l’obiettivo di rilevare le capacità di lettura e calcolo dei nostri ragazzi. Lo studio ha coinvolto 11.785 bambini italiani di 550 scuole di tutto il territorio nazionale e si è concentrato in particolare sulla lettura, analizzando «la capacità di comprendere, utilizzare, valutare e riflettere» e sul calcolo matematico.

Secondo il Rapporto, almeno per coloro che riescono a leggerlo e capirlo (e purtroppo non tutti i mezzi di informazione, evidentemente, hanno dimostrato di esserne in grado, avendo urlato all’allarme “ignoranza”), gli studenti che hanno le competenze minime sono il 77%. Pertanto, rovesciando il dato, gli studenti privi delle competenze minime di analisi e comprensione di un testo nella loro lingua madre non sono affatto 19 su 20, come da più parti denunciato, bensì 1 su 4 (o 5 su 20, se preferite).  Ancora molto, si dirà giustamente, ma per fortuna non quel dato drammatico che è apparso erroneamente su più testate nei giorni scorsi. Gli italiani, in definitiva, hanno raggiunto un punteggio di 476 contro la media OCSE di 487, posizionandosi tra la ventitreesima e la ventinovesima posizione. Non risultati esaltanti, è bene ribadirlo, ma nemmeno così negativi com’è appunto apparso in un primo momento. Emergono, questo sì, significative differenze fra il nord e il sud del Paese, ma non solo: nel nord-ovest il punteggio medio è 498, nel nord-est 501, il sud e le isole sono rispettivamente 453 e 439, mentre il centro 484. Gli studenti delle scuole superiori ottengono un punteggio di 521, quelli degli istituti tecnici 458, quelli degli istituti professionali 395. Gli studenti che frequentano la formazione professionale, infine, sono arrivati a 404. I risultati del test di matematica sono addirittura migliorati rispetto al 2009, sebbene rimangano anche questi non esaltanti. Il 24% degli italiani di 15 anni non raggiunge il livello base (contro una media OCSE del 22%) e solo il 10% si colloca tra le eccellenze (media OCSE: 11%). Qui i ragazzi ottengono un punteggio più alto rispetto alle ragazze con 16 punti (una differenza di genere che ha un valore più che doppio rispetto alla media OCSE).

Parliamo di questi dati con Stefano Quaglia, oggi direttore della Fondazione Toniolo e fino al 2018 direttore dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Verona, dopo essere stato per dodici anni professore di latino e greco al Liceo Classico Maffei e per altri dodici anni Preside del Liceo Guarino Veronese, oltre che avere nel suo ricchissimo curriculum anche quindici anni da dirigente tecnico e amministrativo dell’Ufficio Scolastico Ministeriale.

Stefano Quaglia

Quaglia, come possiamo commentare questi dati? «Non dobbiamo meravigliarci di questi risultati, che tutto sommato sono costanti da diversi anni, perché l’incidenza dell’attività scolastica su questi dati è molto scarsa. Noi abbiamo visto per il Veneto risultati estremamente positivi, nella lettura e nel calcolo, confrontando l’entrata e l’uscita dei ragazzi nelle scuole con le prove Invalsi. Tutto sommato si conferma anche questo, che il nord ha una vitalità superiore rispetto al resto d’Italia. Questo, peraltro, è piuttosto sorprendente perché al sud ci sono licei molto validi e realtà molto attive. Alle Olimpiadi Classiche, ad esempio, i licei provenienti dal sud si qualificano sempre molto bene. Forse il nord ha adottato una linea di scuola più democratica, con l’intento di alzare la linea di tutti, mentre al sud ci sono ancora scuole fortemente esclusive. Chi ha la cultura e le frequenta può andare ad un livello molto alto, mentre chi non ce l’ha rimane, purtroppo, a un livello molto basso. La forbice, insomma, non è tanto tra nord e sud, ma tra alcune “parti” del sud che portano inevitabilmente in basso l’intera area. Da questo punto di vista probabilmente c’è anche una diversità dei poli scolastici e dell’organizzazione territoriale. Si tratta, ovviamente, di una prima analisi molto sommaria, perché in realtà non mi pare che ci sia questa reale frattura fra nord e sud, come effettivamente risulta dai dati.»

Vista la costanza di rendimento nel corso degli anni, cosa non ci consente di migliorare in questo momento?
«La situazione è preoccupante: la praxis sta superando e battendo su tutta la linea la theoresis. Se questo è accettabile per quanto riguarda le scuole superiori, è soprattutto per quanto riguarda un orientamento agli istituti tecnici e professionali ad essere calato. È l’estensione della praxis come modalità di approccio alla vita che caratterizza gli adolescenti e caratterizza in fondo tutto il sistema dei licei. La componente del libro, della lettura, della riflessione, del tempo dedicato allo studio costante, accanito, senza tristezze, senza malinconie, senza nessun tipo di certificazione, che compensi in qualche modo qualche fragilità personale sembra non essere più caratteristica diffusa di questi ragazzi. Non si capisce bene se questo sia il risultato di un atteggiamento di un mondo adulto attento e prudente, che valorizza le possibilità o è una forma con cui l’adulto si scherma nella sua incapacità di far crescere i giovani. Ho questo sospetto, perché questi dati non rispecchiano ciò che noi realmente vediamo nella scuola. Quindi li prendiamo, li analizziamo e li commentiamo, ma sempre con il beneficio d’inventario. Perché poi in fondo continuiamo a vedere risultati scadenti del nostro sistema scolastico da parte di queste analisi internazionali, eppure vediamo anche che continuano a portarci via i nostri ragazzi laureati, i ragazzi all’estero frequentano una scuola più fragile nella nostra, quindi il problema non è tanto nel cosa facciamo o nei risultati di apprendimento dei nostri ragazzi, che secondo me sono buoni, ma sta nel sistema scolastico che non è all’altezza dell’attuale complessità.»

Esiste, però, un problema dell’accesso alla scuola da parte delle famiglie più povere, intendendo non solo il censo, ma soprattutto il contesto culturale di vita. Resta quindi un grande problema di natura sociale, non solo di performance…
«Siamo nella società della conoscenza, dell’economia della conoscenza. Pensare di non avere formazione scolastica e culturale è come pensare di andare al Polo Nord in maglietta e bermuda. Occorre una munizione di protezioni, vestimenti, scafandri culturali che solo la scuola può dare e che non possono essere dati da un rapporto individuale o da un formazione non formale o informale. Questi strumenti devono provenire da una organizzazione formalizzata per la costruzione della personalità. Da questo punto di vista evidentemente non siamo ancora cresciuti come Paese e siamo ancora per certi aspetti legati alla dimensione delle tradizioni e della povertà culturale. Però anche in questo senso ci andrei piano, visto che molti Istituti Tecnici e Professionali sono frequentati da italiani di recentissima acquisizione, per i quali questo tipo di scuole è l’unico veicolo per un inserimento sociale alto. La lettura, quindi, non va fatta considerando lo scarto culturale, ma considerando invece l’avanzamento culturale che questa scuola ha prodotto in chi l’italiano inizialmente manco lo sapeva. Insomma, bisogna valutare molti aspetti.»

Però l’analfabetismo di ritorno è un problema serio…
«Evidentemente è un dato abbastanza certo ed è confermato dal fatto che tutti gli strumenti cognitivi di tipo aurale – come ad esempio i messaggi vocali che ora si possono inviare e ascoltare tramite i nostri smartphone –ha favorito l’atrofizzazione delle competenze scritte.»

Come si inserisce in tutto questo il concetto di life long learning? In Italia c’è questa cultura trasversale della formazione anche in età avanzata?
«I centri provinciali per l’istruzione per gli adulti stanno facendo un lavoro gigantesco in tutta Italia, anche se forse non è molto noto. Diciamo, però, che forse il sistema dell’istruzione degli adulti è ancora poco organizzato, ma negare che ci sia, pensando anche alle tante Università per la Terza Età, tante università popolari e a tutto il sistema dei CPIA – i Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti, vere e proprie scuole che solo nel Veneto hanno compiuto negli ultimi 8 anni quasi 150mila test di italiano per stranieri, ndr – significa parlare senza avere cognizione di causa. Siamo in realtà un paese molto complesso, in cui ci sono delle differenziazioni importanti da fare. Certo è che nella mentalità comune la scuola non sempre viene vista come un’opportunità, ma a volte viene percepita quasi come un fastidio.»

Manca un piano di formazione permanente in Italia o esiste?
«Esiste, ma non si capisce chi lo debba applicare. All’inizio dovevano essere le Province, che però sono state smantellate, e ora l’incarico dovrebbe essere affidato agli Uffici Scolastici Territoriali e Regionali, i quali non sempre hanno un’amministrazione capace di capire il valore di queste cose. Per cui spesso sono le stesse scuole, nella loro solitudine, che reggono questo impatto. E ancora una volta è il tessuto periferico che salva l’inconsistenza e certa arretratezza dell’amministrazione.»