Ovvero, come la scuola implicitamente dichiara sfiducia nei propri alunni e insegnanti.

Francisco Goya, “Saturno che divora i suoi figli”, Museo del Prado, Madrid

Mercoledì scorso gli studenti hanno iniziato esami di maturità. Come sempre, la prima prova scritta è stata il tema d’italiano. Su tutti i giornali – e anche a detta di chi scrive – le tracce sono state nel merito interessanti. Varie, con un forte richiamo alla storia anche dolorosa di questo Paese, come la vicenda Dalla Chiesa, che in questa prova però ha sollevato qualche polemica anche perché, di fatto, per molti venne inviato in Sicilia a morire e più che un simbolo di lotta è immagine di un Stato Saturno che divora i propri figli.

Ma tralasciando la trasformazione in santini di figure chiave della storia italiana, da Falcone a Dalla Chiesa, tipico di uno Stato che magari ha memoria ma non senso critico né pudore, proviamo a intravedere un percorso che, invece, entra nel merito della forma dell’esame di Stato. Prendiamo a campione alcune tracce dagli anni Ottanta a oggi:

1980: “La violenza lacera quotidianamente la società, circonda la nostra vita, coinvolge la nostra coscienza, sollecita la nostra riflessione morale, culturale, politica. Nella tua esperienza giovanile non avrai mancato di interrogarti su questo aspetto drammatico del nostro tempo e di maturare personali considerazioni.”

1989: “Il rapido diffondersi di macchine sempre più perfette nelle attività produttive riduce, con altrettanta rapidità, il bisogno del lavoro fisico e libera nuove energie umane, destinate a migliorare la qualità della vita. È tuttavia questo stesso processo di crescente automatizzazione che, creando macchine somiglianti all’uomo, finisce, secondo alcuni, per modellare uomini che somigliano sempre più a macchine. Si affronti la questione, sviluppandola con riflessioni personali.”

1995: “Gli ideali politici che animarono la Resistenza hanno trovato la loro coerente espressione nel dettato della Costituzione, che resta il supremo punto di riferimento del nostro vivere civile. Delinei il candidato il quadro delle vicende italiane nel quinquennio 1943-1948, soffermandosi in particolare sulle caratteristiche del movimento della Resistenza e sul valore fondamentale della Carta Costituzionale.”

Tracce, come si vede, precise, che hanno richiesto al candidato un quadro critico di conoscenze preciso, un’opinione personale legata ai fatti e alle questioni culturalmente e socialmente rilevanti nel passato o nel futuro. Una tela bianca su cui spaziare e dire la propria, interrogandosi sul presente, col rischio – e anche questa è prova nella prova – di “andare fuori tema”.

Dal 2000, però, assistiamo a un progressivo cambiamento: i testi diventano sempre più ampi, specie con l’introduzione della tipologia del saggio breve (dal 1999). Vengono così forniti, con questa formula – rinnovata a tradimento in corso d’anno nel 2019, e non si fa – una serie di dossier che permettevano di comporre un testo con citazioni, una piccola tesina se si vuole. Con il rischio fattuale, tuttavia, che l’elaborato si riduca a un collage per i meno dotati. Ma non è solo questo il cambiamento.

Prendiamo ora una traccia dell’esame di quest’anno. Per il saggio breve partendo dal testo L’illusione della conoscenza (Steven Solman – Philip Fernbach) c’è questa consegna:

“Gli autori illustrano un paradosso dell’età contemporanea, che riguarda il rapporto tra la ricerca scientifica, le innovazioni tecnologiche e le concrete applicazioni di tali innovazioni. Elabora le tue opinioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi ed argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso. Puoi confrontarti con le tesi espresse nel testo sulla base delle tue conoscenze, delle tue letture e delle tue esperienze personali.”

Una cosa balza all’occhio: se lo studente non viene guidato, se non gli si dice cosa scrivere, in che ordine, in che tipologia di testo, viene dato per spacciato. Ci si può, non deve, confrontare col merito del contenuto.

La fotografia, dunque, del momento attuale del nostro concetto di educazione e maturità sembra questa. Da una parte una scuola sempre più timorosa e che ha l’ossessione dell’oggettività della valutazione, per paura certo dei ricorsi ma soprattutto per far credere che insegnare sia un’attività misurabile e quantificabile numericamente, come una fabbrica che sforna calzini. Come si declina questo nella realtà? I docenti prendono dei parametri, approvati dai dipartimenti o anche solo dai singoli e li applicano a tutti gli elaborati degli studenti allo stesso modo. Come si vede, l’inno all’appiattimento. Ma è poi possibile? Possono docenti diversi, in forza di griglie eguali, dare la stessa valutazione a un medesimo compito, da Bolzano a Catania, a una voce come ad esempio “rendere in italiano scorrevole e con un lessico adeguato” una versione di latino? Chiaramente, lo stesso compito avrà diversa valutazione da docente a docente. Ed ecco una parte dell’ossessione crescente delle prove: consegne sempre più claustrofobiche, rigorose, guidate.

Millenials stereotipati

Dall’altra, agli alunni è richiesta, ora come ora, la comprensione e il collegamento con le conoscenze acquisite più che un pensiero critico, libero anche nella forma. La prova certifica la capacità del candidato di rispondere alle consegne nel modo richiesto e a fronte di un preciso testo. Prendete la traccia del 1995: dopo i fatti di Palermo, una traccia pericolosissima, ma più che adeguata per un cittadino che dovrà confrontare e giustificare il proprio orientamento e impegno politico, nonché il proprio voto. Oggi, invece, dai millennials ci si aspetta che capiscano e rispondano a tono. Alla prova di maturità, ai test di ammissione dell’università.

E se anche solo il comprendere è diventato un’urgenza (e i social lo mostrano impietosamente), è forse ora di interrogarsi sul livello culturale della nostra democrazia.