Utilizzando l’incipit de Il Manifesto del partito Comunista potremmo dire che “uno spettro si aggira per l’Europa”. Lo spettro del populismo. Se il nichilismo è stato “l’ospite inquietante” della cultura Europea del Novecento, il populismo si può definire a buon diritto l’ospite inquietante della politica del terzo millennio. La bibliografia sul tema negli ultimi anni si è considerevolmente ampliata, complice l’affermazione elettorale di movimenti populisti che in alcuni Paesi del Vecchio Continente sono arrivati ad avere responsabilità di governo, come in Italia la Lega con M5S, ovvero due partititi che rivendicano per se stessi esplicitamente la definizione di “populisti”. Così, sulla spinta della contingenza, il tema della definizione di “populismo”, dagli studi accademici è migrato sui mezzi di comunicazione mainstream, diventando da argomento di studio scientifico un tema polemico di massa. In questo filone si inserisce l’importantissimo lavoro Dai fascismi ai populismi, uscito recentemente con la casa editrice Donzelli a firma di Federico Finchelstein.


Federico Finchelstein

Docente di storia alla New School for Social Research e all’Eugene Lang College a New York e visiting professor all’Università di Milano, lo scrittore è originario dell’Argentina, la “Madre Dolorosa” dei populismi moderni. Lunedì scorso è stato ospite al Polo Santa Marta dell’Università di Verona in un intervento per il ciclo di conferenze “Europa, una sfida tra passato e futuro”.

Gli studi di Finchelstein sono il tentativo, a parere di chi scrive, assai convincente per impianto metodologico e coerenza, di mettere la catena all’animale proteiforme del Populismo, esattamente come fece Menelao nell’Odissea con il dio Proteo, in modo tale da coglierne l’essenza al di là di tutte le sue molteplici trasformazioni. Tentativo oltremodo necessario, vista anche la confusione epistemologica che la narrazione maistream dei media contribuisce ad alimentare circa la corretta definizione del fenomeno politico di cui parliamo. Confusione che, anziché chiarire i termini reali del problema, costituisce una cortina fumogena per coprire distorsioni cognitive che sono brandite come arnese di polemica politica nei confronti dell’avversario.

La locandina dell’Università di Verona con l’appuntamento dedicato a Finchelstein

Come definire innanzitutto il populismo? L’ex ideologo della “Nuova Destra” Marco Tarchi, nel suo recente Italia populista lo definisce una «mentalità politica». Fallito ogni tentativo di connotarlo ideologicamente, occorre cercare per esso una chiave interpretativa basata su questo fenomeno in tutte le sue proteiformi manifestazioni: una mentalità che si basa sulla convinzione dell’esistenza dell’unità innata del popolo, la quale è la unica fonte di legittimità dell’azione politica. Sostanzialmente il populismo nasce e si alimenta sulla cleavage “NOI -LORO”, dove il “NOI” è il popolo e il “LORO” è l’estraneo, di volta in volta impersonato dalle élite, dagli stranieri, dai generici “Nemici del popolo”.

Il leader populista si autoinveste della rappresentatività dell’intero popolo – i 60 milioni di Italiani della narrazione governativa – che è unica misura di legittimità. In questo senso si possono interpretare le ricorrenti opere di delegittimazione che la maggioranza di governo porta avanti a spese delle agenzie tecniche non elettive (si candidino alle elezioni…). Alcune parti politiche opposte hanno visto, attorno a questa radicale dicotomia “NOI–LORO”, una sorta di fascismo “in nuce”. Il populismo è visto quindi come la prima fase di una deriva tendente a comprimere le libertà civili e instaurare una forma di governo autoritaria.

Ma questo schema è corretto e corrisponde a una reale linea evolutiva del fenomeno? Finchelstein ci invita a una lettura molto interessante, che ribalta il tradizionale vettore “Populismo à Fascismo” in quello “Fascismo à Populismo”.  Secondo lo studioso argentino, infatti, il “nuovo populismo”, nato dopo la seconda metà del Novecento, lungi dall’essere un primo stadio di una deriva che conduce al fascismo è il riadattamento di temi di azione politica prettamente fascisti alle mutate condizioni politiche come si erano definite nel mondo dopo la Seconda guerra mondiale, non solo in Europa ma anche nel resto del mondo: la prima nazione, dopo il 1945, ad aver avuto un sistema di governo populista è stata l’Argentina, con l’esperienza del Peronismo.

Dalle analisi di Finchelstein emerge una lettura del populismo come un riadattamento globale nell’epoca del suffragio universale di temi fascisti, miranti a istituire una sorta di democrazia autoritaria, ma comunque contenuta all’interno dei limiti fissati dalla istituzionalizzazione delle forme politiche basate sui sistemi elettivi a suffragio universale che si erano consolidati dopo la Seconda guerra mondiale. Il populismo, secondo Finchelstein, accetta il suffragio universale e (quasi mai) lo sovverte, pur mirando a una forma di potere verticale basata sulla relazione diretta “CAPO à MASSA”. E soprattutto rifiuta l’utilizzo istituzionale della violenza come strumento di azione politica mirante all’annientamento dell’avversario che fu dinamica peculiare dei totalitarismi del XX secolo. Il populismo anzi, in alcune occasioni fu vettore per l’espansione dei diritti civili e sociali di larghi strati della popolazione, come nell’Argentina della seconda metà del XX secolo.

Ernesto Laclau

Del resto ci sono studiosi come Ernesto Laclau che del populismo hanno colto ed evidenziato in chiave positiva la sua caratteristica di porre la volontà delle masse “dal basso” quale motore principale dell’azione politica, indicando in essa uno degli ingredienti fondamentali della democrazia intesa come “rispondente” alle attese/aspettative degli elettori. Opere come quella di Finchelstein ci invitano a considerare il populismo non più come una degenerazione della democrazia, bensì come una sua evoluzione, un riadattamento a nuove condizioni. Ci invitano soprattutto ad aprire i nostri confini mentali, uscendo da prospettive eurocentriche che spesso sono un letto di Procuste e iniziando a pensare la democrazia non come un sistema chiuso e cristallizzato in una forma definitiva – cioè la democrazia parlamentare come si è definita nel secondo dopoguerra –, ma come un soggetto in continuo divenire.

Questa, a parere di chi scrive, è la sfida lanciata dal populismo e che la cultura politica deve saper cogliere, senza appiattirsi sulle contrapposizioni e le scomuniche del nemico, ma leggendo e anticipando le trasformazioni di un sistema aperto come quello democratico. Non è una sfida semplice da accogliere, tuttavia assolutamente necessaria: poteva un uomo vissuto all’epoca del Re Sole concepire un sistema politico diverso da quello della Monarchia Assoluta?