Storia di Francesca Berti, che è partita da Verona per andare in Germania. Dove, ci dice, può giocare sul serio.

Francesca sul “campo” di gioco

Francesca, parlaci di te, di quale parte di Verona sei e cosa ci fai in Germania ora?

«Sono nata e cresciuta nella zona di piazza Renato Simoni, non era proprio un quartiere, si andava a scuola a San Bernardino e a giocare ai Giardini di Raggio di Sole, ma ci si sentiva “in centro” e si facevano lunghe passeggiate lungo l’Adige.
Mio marito è tedesco e viviamo a Tübingen, una cittadina universitaria a sud ovest della Germania, tra le Alpi Sveve e la Foresta Nera.»

Quale è la tua formazione e come ti sei affacciata al gioco e alle sue teorie e pratiche?

«Mi sono laureata in Lettere Moderne a Verona nel 2001 e sono subito partita per Londra dove ho conseguito un Master in Development Studies presso SOAS (School of Oriental and African Studies -Università di Londra).
La passione per i temi legati al gioco è iniziata nel 1998 quando, in un percorso di formazione per animatori organizzato dall’Ufficio Famiglia della Conferenza Episcopale Italiana, ho conosciuto Roberto Papetti, artista e giocattolaio, al tempo responsabile del “Centro Gioco Natura Creatività – La lucertola” del Comune di Ravenna. Fino alla mia partenza per Londra ho accompagnato Roberto in diverse scuole del nord Italia nella formazione degli insegnanti e nell’animazione delle mostre itineranti “La scienza in altalena” (realizzata assieme  Mario Lodi), “Lippe non truppe – giocattoli contro la guerra” e “1 mondo, 10 giocattoli, 1000 combinazioni” (realizzata assieme a Gianfranco Zavalloni). In quegli anni, assieme ai temi pedagogici ed ecologici legati al gioco tradizionale ed ai laboratori di costruzione di giocattoli, sono stata colpita dagli aspetti dell’universale del gioco che in particolare la mostra “1 mondo, 10 giocattoli” suggeriva. Il master a SOAS è stato un momento per approfondire le dinamiche relative agli squilibri tra i cosiddetti Nord e Sud del mondo, ed ai processi di globalizzazione. Dopo un  periodo di lavoro nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, ho deciso di dedicarmi all’Educazione allo Sviluppo, prima, e all’Educazione Interculturale, poi, offrendo laboratori nelle scuole primarie e secondarie e collaborando nella didattica del Museo Africano di Verona (2005-2009). Filo conduttore e medium di questi laboratori è stato, ed è tuttora, il gioco e il giocattolo tradizionale. Ho fatto, inoltre, esperienza di Ludobus, avendo contribuito a realizzare il Ludobus dell’Associazione culturale Ridoridó di Cadidavid, e avendo ideato e realizzato il progetto Ludobus Interculturale per la Volkshochschule di Tübingen (2012-2016). Quest’ultimo progetto, allestito con giochi e giocattoli provenienti da diverse regioni del mondo, è stato nominato Best Practice dal Ministero della Cultura del Baden-Wurttemberg (2013) e ha vinto il Premio Integrazione della Città di Tübingen (2014).»

Ludobus

Perchè il gioco è il tuo punto di riferimento?

«Non so se chiamarlo un punto di riferimento. È un quadro che non smetterei mai di guardare, mi appassiona tutto quello che contiene: la storia dei giochi, i giocattoli da costruire, le dinamiche tra i giocatori, gli svariati luoghi e tempi del gioco. È questo un interesse non specifico, va dal collezionare oggetti, visitando i mercatini dell’usato d’ogni dove, al raccogliere citazioni sul gioco, nell’arte, nella letteratura, nella filosofia ecc. Ultimamente mi intrigano gli studi semiotici sul gioco e per capirci qualcosa mi sono letta tutto il trattato di semiotica di Umberto Eco. E così via, senza soluzione di continuità. Dopo la laurea a Verona, per anni ho cercato una professione a cui dedicarmi, ma in qualunque cosa facessi, in qualunque luogo mi trovassi il gioco continuava a riemergere, soprattutto nei lunghi e solitari mesi in cui ho lavorato in un progetto di cooperazione sanitaria in Tanzania. È stato dopo questa esperienza che ho deciso di fare la svolta e prendere il gioco “sul serio”, ricontattando Roberto Papetti. La nostra è diventata allora non solo un’amicizia profonda, ma un’affinità elettiva nutrita da un continuo scambio di riflessioni sui temi del gioco tradizionale e sul suo significato pedagogico.»

Cosa significa per te giocare?

«Saltare come Alice in una dimensione altra e lasciarsi trascinare dalla sua leggerezza. È una dimensione preziosa, da coltivare nella vita di tutti i giorni, dove quel che si fa, lo si fa solo per piacere, per il gusto di giocare. Con gli amici, le serate che preferisco, sono quelle in cui giochiamo. Ritorna un’allegria bambina. Preziosa.»

Raccontaci del tuo dottorato e del tuo percorso di approfondimento teorico.

«Sto concludendo un dottorato presso il dipartimento di Pedagogia Generale dell’Università di Tübingen e il titolo della ricerca è “Lo spazio condiviso del gioco – I giochi e i giocattoli tradizionali come strumento per l’Educazione Interculturale”. La ricerca è in inglese e si sviluppa tra i Play Studies, la pedagogia interculturale e l’antropologia, analizzando gli aspetti teorici e didattici del laboratorio con i giochi e i giocattoli tradizionali. In altre parole, analizzo la pratica che in questi anni propongo sia nei momenti di formazione con gli insegnati che direttamente con i bambini.
La tesi principale è che i giochi e i giocattoli tradizionali permettono di sottolineare sia l’universale dell’esperienza umana del gioco sia il particolare delle diverse culture. Individuare e valorizzare gli elementi di universalità, fa emergere quel filo che lega le esperienze del gioco dei bambini e degli adulti in tutto il mondo ed è seguendo questo filo che si può ricercare ed apprezzare la specificità dei giochi e dei giocattoli propri di regioni e tradizioni diverse dalla nostra. La prospettiva che suggerisco rispetto all’educazione interculturale dunque è piuttosto eterodossa, in quanto è basata sul paradigma della somiglianza, e non su quello della differenza, al quale si rifà anche la diversità culturale. Penso che la diversità culturale sia un valore che tuttavia per essere veramente riconosciuto si debba anzitutto far emergere quegli “spazi condivisi” tra le culture – il gioco tradizionale, ma anche la musica tradizionale, le fiabe ecc. – in cui soggetti con diverse provenienze possano riconoscersi reciprocamente in esperienze che accomunano. Solo quando riconosco che c’è qualcosa in comune tra te e me, diventi ai miei occhi un po’ meno straniero-diverso-differenze-altro da me. È possibile allora un incontro tra di noi e dunque un dialogo.»

Sta per uscire un libro vero? Puoi dirci qualcosa di più?

«Posso dirti che è un libro sul laboratorio di educazione interculturale con i giochi e i giocattoli tradizionali a uso degli insegnanti, che mette assieme e riassume la mia ricerca e le fantasticazioni sui giocattoli di Roberto. Il libro è ancora in revisione dall’editore e conto di poterci mettere mano appena finita la revisione del dottorato nella quale sono immersa, senza sosta, da due mesi.»

E sappiamo che sei parte dell’Associazione Giochi Antichi. Cosa fai con loro?

«Dal 2013 collaboro con AGA nella realizzazione del Tocatì, in particolare rispetto ai laboratori all’interno della KidsUniversity e al “Forum della Cultura Ludica” in Cortile Mercato Vecchio.
Dal 2018 faccio parte del direttivo e mi occupo dello sviluppo dell’area “Didattica e formazione”. È questa un’area tutta da sperimentare, arrocchita da un profondo lavoro di ricerca, unico in Italia, fatto da AGA in questi 18 anni sulle cosiddette “comunitá ludiche”. La ricerca di AGA ha permesso di scoprire che spesso sono piccoli gruppi, piccole “comunità di giocatori/trici” a tener vivo un sapere che affonda le proprie radici nella storia della comunitá e del suo territorio. Il gioco tradizionale allora non è piú solo un’attivitá propria dei bambini ma coinvolgendo prevalentemente gli adulti rappresenta un patrimonio immateriale di conoscenze e pratiche, che si trasmette quando il gioco è ancora giocato. La possibilità di condividere con insegnati ed educatori/trici la ricchezza dei giochi e dei giocattoli tradizionali contribuisce a mantenere la varietà dell’esperienza del gioco dei bambini – pensiamo alla diffusione dei giochi di plastica e dei giochi digitali – e a sostenere la trasmissione di pratiche locali, permettendo di riscoprire anche altre tradizioni orali legate a queste pratiche, quali l’artigianato, la musica, la cucina.»

Bigliodromo

Secondo te cosa dovremmo sapere del Tocatì che non sappiamo ancora?

«Che trasforma il centro storico in una grande area di gioco e coinvolge, in circa 300 eventi, più di 400 volontari/e e circa 150 tra giocatori/trici, danzatori/trici e musicisti.
Che dal 2015 AGA ha ottenuto la certificazione ISO 20121 per gli eventi sostenibili, certificazione che attesta l’impegno per una sostenibilità economica, ambientale e sociale nella pianificazione e realizzazione dell’evento.
Che nel 2016 AGA con il supporto del Comitato Italiano UNESCO, ha lanciato la candidatura del Festival al “Registro per le Buone Pratiche per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale”. Questo processo di selezione durerà quattro o cinque anni e ciò che rende eccezionale questa candidatura è il fatto che è sostenuta per la prima volta al mondo nella storia del Patrimonio Immateriale da più di uno Stato – Italia, Belgio, Francia, Francia, Croazia e Cipro –, superando interessi e confini nazionali e mostrando che nel gioco tradizionale si realizza uno spazio di incontro tra le culture.»

Cosa dovremmo sapere del gioco e del giocare che non sappiamo?

«Che il gioco è la prima espressione creativa del bambino e che lo “stimolo al gioco” come lo chiama il filosofo Schiller, prosegue nell’adulto nelle forme del gioco stesso e dell’arte, della poesia, della scienza. Ovvero là dove l’immaginazione ci fa dare una forma nuova al mondo.  Immaginando quello che non c’è e creandolo, proviamo un senso di piacere e appagamento che Schiller tradusse nella famosa frase “l’uomo è veramente uomo, solo quando gioca”.»

Cosa ti manca di Verona?

«Le amiche. La famiglia. Il profumo dei gelsomini in estate. I cocai sull’Adige. Il Lugana.»

E cosa non ti manca di Verona?

«La gente che corre in auto e non dà la precedenza ai pedoni sulle strisce pedonali. A Tübingen il limite di velocità è di 40 all’ora: vi sono pochissimi incidenti, automobilisti, i pedoni sono tutti più tranquilli ed è un piacere anche girare in bicicletta.»