Questa vignetta tratta da L’Orda di Gian Antonio Stella lascia ben vedere come, agli inizi del Novecento, lo stereotipo del migrante era, come spesso accade oggi, identificato con un passaggio intermedio dell’evoluzione umana. Non è cambiato molto, sia per lo stereotipo quanto per le teorie lombrosiane che stanno tornando in qualche modo in auge seppur riviste e corrette. Di fatto, la chiusura dei porti alle ONG, la trasformazione da parte del Ministro dell’Interno degli SPRAR in CAS (e ne parla nel concreto Ernesto Kieffer in SPRAR e CAS a Verona: le esperienze a confronto [https://ilnazionale.net/attualita-e-politica/sprar-e-cas-le-esperienze-a-confronto/]) è avvenuto nel sostanziale silenzio dell’opinione pubblica. Certo, qualche giornale cerca di smuovere e sensibilizzare, ma il loro fervore sembra talvolta interessato da esigenze politiche e, comunque, i risultati sono inferiori all’impegno profuso. Un disinteresse dovuto a un crollo delle capacità empatiche dell’italiano medio, del veneto medio? Può darsi. Di certo è uno scontro su più livelli alimentato da più fattori.

Innanzitutto, la paura: si può chiedere a un’opinione pubblica scossa dagli attentati del nord Europa di accogliere lo straniero come se nulla fosse, mentre in piazza Brà militari a ogni angolo e blocchi di cemento ci comunicano un pericolo incombente? Difficile davvero, soprattutto alla luce della ridotta stima delle capacità dello Stato di selezionare i migranti in arrivo. Come per i lettori della vignetta dello Zio Sam (1903), gli italiani ascoltano con sospetto i racconti di orde di migranti usciti direttamente dalle carceri dei loro paesi di origine.

Diceva Bourdieu: «Le classi in cui il declino numerico esprime il declino economico, […] si presentano legate a un passato tramontato. […] esprimono, in tutte le loro preferenze, degli atteggiamenti regressivi, che stanno indubbiamente alla radice delle loro inclinazioni repressive». Alla paura per il diverso, si associa il timore di perdere quanto si ha e addirittura di essere discriminati al contrario: ecco a Veronetta l’arrivo di Forza Nuova e la sorprendente affermazione di Pietro Amedeo, segretario provinciale, dell’attivazione di un servizio CAF per i nuovi discriminati, gli italiani (si veda Gigi Sabelli, Lo spazio di estrema destra a Veronetta, https://ilnazionale.net/attualita-e-politica/lo-spazio-di-estrema-destra-a-veronetta/). Questo si aggiunge alla sorpresa e alla costernazione dei cittadini per i nuovi arrivati che per primi, grazie ai loro requisiti, si aggiudicano case popolari, negozi ad affitti agevolati, percorsi preferenziali in ospedale. Il terrore, insomma, di rimetterci ciò che si è costruito a favore degli ultimi, più poveri ma più determinati, anche qui sotto il presupposto ombrello dello Stato.

Su questo terreno fertile, di un paese sfiduciato, debole, in cui il timore che i figli vivranno un futuro meno radioso dei loro genitori è oramai certezza, si innesta l’operato (sul quale bisognerebbe discutere, distinguendo gli atti ufficiali dagli annunci) del Ministro dell’Interno, che promette di ridurre e selezionare gli accessi (come nella vignetta del Brooklyn Daily del 1903) e di battersi contro il nemico che ci vorrebbe disarmare (ovvero L’Europa e i buonisti, Soros e chi ne ha più ne metta). Non è una strategia comunicativa nuova, come si vede dalle immagini, anzi. Però funziona. Altro non è che lo stile di Mourinho che compatta le sue squadre con la sensazione dell’accerchiamento e una perenne pressione. Mourinho, però, in una società sportiva non dura più di tre anni a causa del logoramento ambientale causato dal suo metodo. Lo stesso principio può valere per la narrazione di Salvini: l’Europa non ci capisce anzi ci odia, siamo soli, il nemico viaggia sulle ali del buonismo, però la Francia.

Si badi, però. Il probabile fallimento di Salvini sul medio-lungo periodo (a meno che non ci stupisca con politiche economiche innovative: staremo a vedere) non deve ridurre la questione accoglienza al semplicistico conflitto destra repressiva-sinistra accogliente, come di fatto sta accadendo da tempo, e non solo per la scomparsa del principale partito di sinistra che fa venire a mancare un polo fondamentale di questa dialettica. La situazione nel mondo reale, nelle strade di Verona, è davvero complessa. Girate di sera a Borgo Roma. Andate in ciò che resta del servizio pubblico sanitario, i distretti, dove puoi incontrare la vecchina che racconta, tra l’arrabbiato e il rassegnato, della solita “neretta col bocia” che salta la fila, non paga la sanzione “che tutti invece pagano” (la ragazza, vent’anni e bimbo nella fascia, non si era presentata a una visita prenotata) e ottiene un appuntamento seduta stante proprio al posto della furente vecchina che, chiedendo spiegazioni all’impiegato, si sente rispondere: “Che vuole farci? Noi lavoriamo per loro”. Ed è una voce che dà il la a un coro verdiano di vecchietti baldanzosi, tutti a raccontare un proprio aneddoto; magari non lavorano più, ma di sicuro sono attenti a quello che capita intorno a loro. Per carità, sono piccole cose. Notate poi però come in breve tempo, in un condominio popolare, chi può – anche se residente da anni – se ne va quando arrivano alcune famiglie troppo diverse culturalmente e che, in breve tempo, in quel condominio gli accolti abbiano totalmente sostituito gli “accoglienti”. Difficoltà che vengono amplificate dall’avidità di alcuni locatori, in un mix esplosivo tra interessi privati egoistici e assenza di programmazione pubblica. Segnalava infatti Francesco Barana che, nel caso di Veronetta, una colpa non trascurabile dell’instabilità del quartiere derivi dalla gestione privata del fenomeno: «Il vero colpevole è il capitale, leggi quei locatori (non tutti) che a suo tempo pur di incassare affitti cospicui hanno affittato appartamenti a stranieri (comprensibilmente) disposti a tutto, anche a stringersi in dieci in quattro stanze, pur di trovare una casa (perché ancora oggi molti immigrati regolari in molte case di altre zone non sono graditi)» [https://www.tgverona.it/pages/770426//il_cielo_sopra_verona/veronetta_ghetto_nato_da_intolleranza_e_avidita.html ].

Veronetta è oggi un ghetto, dicono alcuni; Verona meticcia recita una scritta apparsa recentemente. In realtà è lo specchio di una politica, soprattutto locale, che sembra priva di armi nel rendere giustizia alle richieste dei cittadini, che si vedono negato l’accesso a beni pubblici percepiti come eredità di popolo, concetto reso nello slogan “Prima gli italiani”. Il mugugno per la difficoltà di accesso agli asili pubblici, per i costi dell’accoglienza scaricati sulla comunità – e si veda il recente caso del Comune di Calenzano (FI) –, per la decenza e il decoro pubblico. È un “pago, quindi sono” che può non piacere nella sua rozzezza ma che in un sistema capitalista non è ignorabile. Né è ignorabile, d’altro canto, il diritto a una vita decente di un migrante che scappa dalla guerra ma anche semplicemente dalla miseria, magari con dei bambini.

Una storiella semplice (e vera). Nel condominio di un paese in periferia di Verona entra rumorosamente nel palazzo una famiglia di migranti originari del Nord Africa. Padre, madre, molti figli. «Càmpano col sussidio della figlia handicappata, ma va bene perché così almeno lui non spaccia più» dice una condomina. «Lei non ha paura?». «No» dice lei «qui siamo tutti italiani. Ha provato a fare il furbo le prime volte, ma gli abbiamo detto subito che qui le cose funzionano così e non come a casa loro. Adesso si comportano bene. Meglio insomma.» «Ma non è un po’ esagerata?» «Anni fa in un condominio comunale non lontano di qui delle famiglie di albanesi hanno terrorizzato i condomini italiani che, uno alla volta, se ne sono andati. Adesso è tutto loro, e tu prova a dir qualcosa.»

Forse la soluzione non è ributtarli a mare. Non lo è nemmeno dire che va tutto bene e che l’immigrazione è la panacea di tutti i mali. Non basta nemmeno la solita retorica dell’italiano a sua volta migrante. Forse è governare il fenomeno, la soluzione: con una distribuzione diffusa e attenta a mantenere le proporzioni per permettere una integrazione guidata; con un accesso alle risorse pubbliche che tenga conto delle ragioni dei cittadini d’origine; con uno spazio decisionale insindacabile lasciato a Comuni nella gestione delle risorse. Ma non possiamo ignorare l’elefante nella stanza.

Il problema centrale è la giustizia italiana che, nel corso degli anni, ha reso sempre più complesso il lavoro delle forze dell’ordine e nella rivendicazione dei propri diritti. Non c’è alcuna nostalgia per uno stato di polizia, s’intenda, né si desidera un altro caso Cucchi: ma è evidente che non è accettabile dall’opinione pubblica che uno spacciatore, colto magari in fragrante, con un decreto di espulsione sulle spalle, abbia la quasi certezza di essere a piede libero e di nuovo sulla strada ben prima che il poliziotto che l’ha arrestato abbia finito il suo rapporto. Non è accettabile nemmeno sentire storie come quella di Paola Barzotti [https://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/roma-rientra-dal-weekend-e-trova-la-casa-occupata-le-mie-cose-buttate-in-strada-_3167735-201802a.shtml], che si è ritrovata con la casa occupata dal giorno alla notte e che ora dorme in macchina mentre le forze dell’ordine rimangono inerti e impotenti, a guardare. Anche la forma impone dei suoi doveri: un sistema oltre a essere giusto deve anche sembrarlo: la carta costituzionale, allora, nelle sue recenti interpretazioni estensive non può diventare pretesto per una sostanziale impunità – che vorrebbe essere pietosa nei confronti degli ultimi e che invece è solo pietistica – e che ha l’effetto di diffondere caos e sfiducia a danno di chi debole è davvero. Con la tentazione, magari, di farsi giustizia da soli.

Questo dovremmo chiedere, al di là delle bandiere e dei proclami: uno Stato che si faccia sentire sia quando deve fare la faccia cattiva sia quando deve tendere la mano. Lascerebbe meno spazio alla propaganda, alla sfiducia, alla paura.

Se ci sei, batti un colpo.