Per chi oggi ha 30 anni il G8 di Genova è un ricordo vago fatto di cortei e auto bruciate al telegiornale, di innumerevoli speciali e documentari visti negli anni, magari di film. Per chi cerca di informarsi è una pagina piena di segreti, verità monche e responsabilità scaricate. Ma il mistero più grande riguarda il cuore di quei tre giorni di fuoco: dove sono finiti i valori e le proposte dei cosiddetti “no global”?

Oltre le proteste

Erano centinaia di migliaia in quei giorni a Genova, e la parola d’ordine era una sola: fermare il G8. Entrare in quella zona rossa delimitata dall’apparato di sicurezza e bloccare i lavori di quella riunione tra i grandi della terra. Come se da quelle discussioni fosse dipeso il destino del mondo. In un pomeriggio di sole. A Genova.

In realtà di summit come quello, negli anni successivi, ce ne sono stati moltissimi altri, uno più inconcludente dell’altro. In quello del 2001 i temi da trattare riguardavano l’economia globale, il debito dei paesi del terzo mondo, il digital divide, il clima… insomma, le cosiddette grandi sfide del XXI secolo.

E fuori? Fuori dalla zona rossa c’erano gli altri. “Voi G8, noi 6 000 000 000” diceva uno striscione, un’umanità intera schierata contro l’interesse dei pochi. Contro la globalizzazione delle multinazionali, libere di spostare ricchezze, merci e lavoro da un capo all’altro del pianeta senza rendere conto a nessuno. Contro la supremazia dell’economia sulla politica rappresentativa. Contro lo sfruttamento irresponsabile delle risorse naturali. Contro la schiavitù.

I no global avevano ragione?

Quasi che questi giovani degli anni ’90, questi “boomer”, avessero capito quali fossero i rischi del mondo globalizzato, quasi che li avessero capiti prima di Facebook, prima di Google e di Youtube, prima di Greta e prima delle ONG. “Think locally, act globally” dicevano, fai la differenza nel tuo piccolo e tieni a mente il destino del pianeta.

Heber CC BY-SA 3.0

Non accettavano quel capitalismo senza freni che la globalizzazione stava portando al suo stadio più estremo e inarrestabile. Volevano che, in un mondo in cui la speculazione avviene su scala globale e in cui la mole di denaro mossa dalla finanza è decine di volte più grande dell’PIL globale, ci fosse una tassa minima sulle transazioni finanziarie. Chiedevano il diritto dei popoli ad emigrare, e a non farlo.

Da come va il mondo oggi verrebbe da dire che questa manica di fricchettoni avesse ragione su praticamente tutto, persino sulla crisi finanziaria del 2008 e quella dei debiti sovrani del 2011. Eppure sono scomparsi. Si sono sciolti come neve al sole. I loro temi sono più importanti che mai e di questi “altermondisti” non c’è traccia.

Dentro quei grandi cortei c’era di tutto. C’erano i comunisti e i cattolici, c’erano i libertari e gli anarchici, c’erano i violenti e c’erano i pacifisti. C’erano anche i centri sociali. Vent’anni dopo, pur con qualche defezione, questi gruppi ci sono ancora più o meno tutti. Ma la critica alla globalizzazione sembra essere passata di moda.

Il grande inganno

Leggendo qua e là, la spiegazione più gettonata della scomparsa dei movimenti no global è l’11 settembre. Sarebbero fuggiti per non tornare mai più, con la paura e con il controllo serrato dell’epoca del patriot act. In realtà si sono lasciati mangiare dal capitalismo stesso, dalla comunicazione, dal marketing, dal divide et impera delle guerre tra poveri.

Oggi la sinistra liberal corre dietro ai pronomi giusti e alla schwa e si dimentica in blocco dei diritti sociali, chiama evasori gli esercenti e non alza mai la voce contro i paradisi fiscali dentro la stessa UE della finanza, venerata come unica salvezza.

Se lo raccontassimo a un manifestante di quel 20 luglio 2001 ci riderebbe in faccia, ma oggi l’unica forza antiglobalista è proprio la destra sovranista, e non c’è da stupirsi. La globalizzazione ha portato con se la crisi della classe media e una concentrazione di ricchezze che non si era vista nemmeno ai tempi dell’ancien régime. Se la soluzione internazionalista (think globally) è fallita, non c’è via più semplice del sovranismo, o, nei casi peggiori, del nazionalismo.

Nel frattempo la battaglia sui diritti è stata usurpata completamente: basta guardare ai profili twitter arcobaleno e al bordocampo delle partite degli europei di calcio per capire che il dibattito sui diritti è all’apparenza sostenuto proprio da quelle multinazionali che per il “Popolo di Seattle” erano il demonio assoluto. Persino i movimenti giovanili sul clima sono sponsorizzati e pompati dalle multinazionali dell’automobile, e dal punto di vista ecologico i governi si muovono solo quando cambia il vento del capitale.

Le stesse piattaforme che controllano la discussione giovanile sono le più grosse aziende multinazionali della storia dell’uomo e ,come si vede ogni giorno in questo periodo di pandemia, decidono cosa sia viral e cosa sia fake.

Insomma, di quell’energia, di quell’entusiasmo, di quell’ottimismo e di quella determinazione ancora oggi c’è un gran bisogno. Dunque ve lo chiedo in ginocchio, giovani del 2000: raccontate la Diaz, raccontate Bolzaneto, raccontate Piazza Alimonda e fate con comodo, perché è importante ricordare. Ma quando avete finito, tornate a rispolverare quei cartelli e quegli striscioni, che a parlare di anticapitalismo c’è rimasto solo Fusaro.

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