Ha le radici a Verona ma il suo progetto di vita prende il volo in Svezia. «Volevo vivere come Pippi Calzelunghe» dice scherzando, e anche se non se ne va in giro in groppa a un cavallo bianco, Marco Buemi un po’ ribelle lo è sempre stato.
Dopo un diploma in ragioneria, ha scelto Relazioni internazionali all’Università Bologna e ha cominciato a interessarsi delle politiche di welfare del nord Europa, fino a prendere una borsa di studio per realizzare la tesi di laurea. Doveva restare 6 mesi a Stoccolma, alla fine è rimasto 8 anni. Un tempo speso anche alla ricerca di nuove mete: grazie a uno stage con la facoltà di economia e commercio, ha lavorato un anno nel cuore della Silicon Valley di Bangalore, in India, al marketing di una software house, proprio negli anni in cui esplodeva il mercato del webdesign asiatico. Un anno condito di viaggi in tutto il Sudest, dove ha sperimentato l’impatto dei grandi flussi del turismo di massa.
Dopo un master in turism management a Bologna, torna in Svezia, e dopo diversi colloqui di lavoro andati male, viene chiamato dall’ufficio nazionale dei diritti umani del governo, dove resta a lavorare fino al 2005. Oggi Marco insegna alla Venice University di San Servolo, a Bologna per il master in Welfare di comunità e da febbraio prossimo all’università di Tor Vergata, scrive per “Vanity Fair”, collabora con la Rai e tiene un blog su “L’Espresso”.

Marco Buemi

 
Dalla Svezia come sei rientrato in Italia?
«Frequentando ambienti internazionali, ho conosciuto il capo di gabinetto della presidenza del Consiglio dei ministri, afferente al ministero delle Pari opportunità. Allora c’era la ministra Prestigiacomo, che decise di sviluppare un ufficio simile a quello svedese. Pensavo di restare un anno, invece i progetti si moltiplicarono e si estesero al settore della sostenibilità e dei diritti umani. Nel 2015 però decisi di cambiare, dato che era ormai calata l’attenzione politica su questi temi.»
 
 
In quale settore hai deciso di investire?
«Adesso mi occupo di rigenerazione urbana, abitativa e sociale di aree svantaggiate nelle città di Roma e Torino. Parallelamente sviluppo un progetto insieme alla città di Bologna per riqualificare dei quartieri tramite campagne di civic crowdfunding e azioni di civic innovation. Il crowdfunding, nato per sostenere start up tecnologiche, ora serve anche a rigenerare spazi e socialità in aree urbane marginali.»
Sono strumenti che funzionano?
«Sto coordinando una ricerca sul civic crowdfunding condotto in 10 Paesi dell’Europa centrale e gli esiti sono positivi, sebbene ogni territorio reagisca in modo specifico.»
Hai abbandonato i progetti sull’inclusione e la gestione delle diversità?
«In realtà no. A Milano ho avviato il progetto Inclusive mindset dedicato alle categorie protette, a disabili, migranti e rifugiati e sta per partire un’iniziativa con LinkedIn dedicata alle persone disabili. Sarà principalmente una campagna di comunicazione destinata ai portatori di handicap e alle imprese, per stimolarne l’incontro e ampliare le opportunità professionali.»
Ti occupi di rigenerazione urbana in un’epoca in cui le periferie sono sempre più complesse da governare. Ma a quale città si deve pensare per i prossimi 20 anni?
«Le città satellite costruite negli anni Settanta sono al collasso. Oggi ci sono famiglie che vanno ai centri commerciali perché lì trovano degli spazi adatti ai bambini. Siamo al delirio, ma d’altronde vediamo dove vivono queste persone: in aree senza luoghi di incontro tra generazioni. Ancora oggi se non hai un automobile sei bloccato, soprattutto in Italia. Servono aree sostenibili, pensate per le persone. Quindi sì a interventi di recupero dei piccoli centri, dei beni comuni che vengono ripensati per i bisogni di oggi.»
Marco Buemi durante l’intervista a Brett Schilke, direttore di Impact alla Singularity University nella Silicon Valley

Cambiare modello però costa tanto…
«Le risorse ci sono, serve piuttosto lungimiranza e competenza. Se le amministrazioni di grandi centri urbani avessero un ufficio tecnicamente preparato per progettare la rigenerazione, sarebbero in grado di rispondere ai bisogni. A Torino l’ufficio progetti conta una decina di persone e attrae ogni anno 25 milioni di euro.»
E a Verona?
«Ho incontrato l’attuale amministrazione per proporre la nascita di un ufficio simile. L’ascolto c’è stato, come pure l’interesse da parte di qualche funzionario. Però al momento non c’è stato seguito.»
 
 
È un problema di mentalità?
«Verona è conservativa, quando torno mi sembra di fare un salto indietro di 15-20 anni. Cambia tutto molto poco e lentamente. Solo Veronetta, dove ho casa, sta vivendo un grande fermento economico e culturale, dovuto sia alla presenza di etnie diverse sia all’impatto positivo dell’università. D’altronde i grandi mutamenti si possono avere solo se ci sono apporti culturali e questo vale per le città, le aziende, le associazioni.»
Quindi qualcosa sta cambiando…
«Sì, il fermento è sotto pelle, però va messo a sistema e integrato tra il settore pubblico, le imprese, le organizzazioni di cittadini, l’università.»
Quanto incide il ruolo dei cittadini veronesi nel riqualificare la città?
«L’attivazione delle persone è sempre il fulcro di questi processi. Basti pensare che anche nel Nord Europa si fanno progetti di sviluppo del senso civico. Chiudersi nel proprio interesse privato è un problema che si trova anche in Paesi dove le politiche sociali sono storicamente forti. Recuperare il significato di bene comune è fondamentale, perché non riguarda solo le istituzioni.»
E in questa prospettiva non è forse un problema che Verona sia una città dal turismo mordi e fuggi?
«Lo è, ma è la sua stessa collocazione geografica a renderlo possibile. Per questo credo molto nel ruolo della cultura, quando punta a riportare l’offerta all’interno della città in chiave di sostenibilità.»