Dalle colonne del “Corriere della Sera” Franco Arminio, nel suo Un Paese più depresso (e nessuno se ne occupa) tratta con sconcerto del silenzio attuale degli intellettuali. Non è certo questione da sottovalutare. Ma chi sono gli intellettuali, oggi? Chi dovrebbe dettare la guida da una posizione in cui la rilevanza è derivata dal prestigio, con uno sguardo oltre l’oggi? La definizione della Treccani è chiara:

«Il termine indica un gruppo o élite formato da individui di diversa classe sociale, accomunati da una cultura o un’istruzione superiori (accademici, artisti, giuristi, scrittori, professionisti), i quali godono della pubblica stima e sono considerati depositari di valori culturali universali che trascendono gli interessi particolari e i pregiudizi partigiani.»

Il declino dell’intellettuale. Partiamo dall’istruzione. Da anni, il sistema scolastico ha ridotto il livello minimo richiesto di conoscenze e competenze per adeguarsi non solo a una platea molto ampia e dai diversi contesti familiari, sociali e culturali ma anche e soprattutto per adattare un sapere che dal teorico astratto si è diretto verso il tecnico professionale, in linea con le esigenze del mondo moderno. Si è di fatto passati coerentemente dalla formazione del cittadino a quella del consumatore e, di conseguenza, al pensiero critico e divergente si sta sostituendo la necessità di formare addetti competenti, flessibili e creativi nel risolvere situazioni e problemi. Un indizio è la scomparsa del tanto vituperato tema: il diffondersi dell’analisi e comprensione del testo (dalle superiori ai test di ingresso universitari) come tipologia di verifica mostra come la parte riflessiva si vada riducendo all’analisi di un contenuto già dato, a scapito sia della riflessione sul proprio sé sia della produzione. Di pari passo la necessità di mantenere un minimo di capacità analitica evidenzia come l’approfondimento – inteso come capacità di comprendere i problemi nella loro complessità e di mantenere l’attenzione – stia diventando problematico a più livelli (e, se aveste dubbi, vi basterebbe comparare le tesi universitarie di oggi con quelle di 25, 20, 15, anche solo 10 anni fa). È la rutilante vittoria dell’homo economicus.

In questo contesto, l’incisività di persone dotate di cultura accademica (sempre più autoreferenziali nella ricerca sia per la progressiva parcellizzazione dei campi del sapere sia per il ridotto ascendente nei confronti del cittadino medio) o di riconosciuta cultura generale è di fatto inesistente anche perché, come diceva Bourdieu, la ricerca formale, che nell’arte e nella cultura porta all’oscurità, rappresenta agli occhi del pubblico popolare uno degli indici di ciò che a volte viene percepita come volontà di tenere a distanza il non iniziato. Il complesso, il non immediato è visto con sospetto (e risolvibile magari col complottismo): il mondo deve essere facile nell’individuazione dei problemi e soprattutto nelle soluzioni. E se la cultura è malvista, difficilmente i suoi cultori avranno molta importanza. «Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola» diceva in un passaggio un dramma di Hans Johst, fu Baldur von Schirach.

Un nuovo totalitarismo? La questione del silenzio degli intellettuali italiani non è priva di conseguenze. Non che nella storia d’Italia avessero mostrato chissà quale coraggio nel contrastare il potente di turno, intendiamoci. Il conflitto tra impegno intellettuale come dovere civile contro le mere esigenze del mondo un tempo poteva portare a situazioni di disagio estreme: così ci insegna il travagliato vissuto di Torquato Tasso che, già nel XVI secolo, esprime con la pazzia la distanza tra la sua aspettativa di indirizzare moralmente la società e il suo sostanziale status di cortigiano. Oggi, l’eredità di una società di stampo novecentesco, in cui l’ideologia doveva disegnare un futuro condiviso desiderabile, è perduta: ne rimangono dei fossili nel mondo scolastico (e in decrescente numero di docenti) e nella Costituzione. L’economia ha vinto su ogni fronte: la nobiltà, che considerava l’esistenza un’emanazione dell’essenza in cui ogni atto, per cui ogni azione avrebbe valore solo nel momento in cui si ha la perpetuazione e la glorificazione dell’essenza, spazzata via. La borghesia, nella sua accezione di supremazia dell’utile, risulta nel suo complesso amorale e il suo attuale predominio è evidente anche nell’appiattimento del dibattito politico, nella trasformazione dell’interesse e del bene comune nella mera buona (nel senso di conveniente) amministrazione dell’esistente.

La mancanza di parole. Per pensare serve il pensiero ed è il linguaggio a formarlo. La società, oggi, condivide moltissimo, ma in modo sempre più superficiale e virtuale: confrontarsi e, quindi, discutere e approfondire è possibile in un numero sempre più ridotto di caratteri. Dai blog a Facebook, da Twitter a Instagram: il percorso dei social segue coerentemente la strada che Orwell in 1984 aveva già indicato per il successo del Grande Fratello, ovvero una neolingua in cui sarebbe stato persino impossibile pensare il dissenso. Se aveste dei dubbi, prendetevi qualche minuto, stazionate vicino a una qualsiasi scuola e ascoltate i giovani parlare dopo che la scuola è finita.

Tornando al “Corriere”. L’articolista del “Corriere” queste cose le sa bene. Il suo pezzo, sul silenzio degli intellettuali, è però sottilmente in malafede, perché lascia intendere che la loro azione dovrebbe essere rivolta al risveglio delle masse contro l’attuale governo: è un articolo di dialettica politica.

Ma la questione posta è reale quanto irrisolvibile: la verità – ce lo ripete la propaganda ogni giorno – è nel popolo, che teme le élite e quindi la cultura, da sempre strumento di potere di gruppi sociali dominanti. Ma – la storia insegna – il popolo fa sì le rivoluzioni, ma non le vince mai, perché non serve correre se non si ha idea di dove andare. Qualcuno, intanto e in silenzio, sta comunque vincendo.