C’è una parola che ritorna con insistenza nel racconto di Filippo Guidoboni: sentimento. Non come nostalgia astratta, ma come pratica quotidiana, come resistenza silenziosa, come costruzione lenta. Figlio dell’Emilia, temprato dal lambrusco e dai cappelletti, capricorno e sognatore, il cantautore, che in arte si presenta semplicemente come Guidoboni, ha vissuto più vite prima di scegliere definitivamente la musica come spazio di verità: postino di giorno, cantautore da sempre, raccoglie storie lungo le strade e le trasforma in canzoni. La sua voce, ruvida e riconoscibile, porta con sé una nostalgia profonda e un romanticismo mai compiaciuto, con un’energia capace di metterlo a nudo, senza protezioni.

Nato a Ferrara nel 1991 e veronese d’adozione da otto anni, Guidoboni debutta nel 2023 con il singolo Bella figura, seguito da Porno, Niente Paradiso e Casa dei miei, brani confluiti nell’EP glu, presentato al Monk di Roma in apertura a Il Muro del Canto. Nello stesso anno partecipa a X Factor, arrivando fino ai bootcamp e colpendo pubblico e giuria con riletture personali di Beatles e Foo Fighters. L’8 dicembre pubblica Guardami, nato dalla collaborazione con Enrico Lupi, Carmelo Drago e Dario Mangiaracina de La Rappresentante di Lista. Nel 2024 apre i concerti di Motta al festival Happennino e di Ermal Meta al Teatro Romano di Verona, grazie al contest Palco Aperto. Nel 2025 arriva anche il riconoscimento della Targa Speciale e del primo posto alla VI edizione di Palco d’Autore.

Un percorso costruito lontano dalle scorciatoie, che oggi confluisce in nove nuovi brani pronti a vedere la luce nel 2026, a partire da gennaio. Canzoni che parlano di resistenza, di amore e di costruzione, in un tempo che sembra aver dimenticato il valore dell’impegno.

Partiamo dall’inizio: chi è Filippo Guidoboni e perché Guidoboni?

«Ho deciso di usare il cognome come nome d’arte, in mezzo a una valle di pseudonimi. Sono di Ferrara, vivo a Verona da otto anni e faccio il cantautore. Ma nella vita faccio anche altro: sono un postino, come mi piace dirlo in maniera un po’ romantica».

La musica, però, c’è da sempre.

«Sì, ho sempre fatto musica. Sono nato nel ’91, ho 34 anni ma vado già per i 35. Sono nato come bassista, poi ho sempre scritto canzoni. Vent’anni di musica alle spalle, anche se il percorso cantautorale vero e proprio è nato più tardi, intorno al 2020. Un po’ per il Covid, un po’ per un’esigenza personale: avevo bisogno di scrivere qualcosa che fosse mio».

Cosa ha rappresentato quel momento?

«La svolta. Ho sempre avuto difficoltà a trovare le persone giuste con cui lavorare in una band. Così ho iniziato a lavorare da solo e ho avuto la fortuna di produrre i miei primi brani a Roma».

Come ci sei arrivato?

«Grazie a mia sorella, che è anche lei cantautrice. È più giovane di me, condividiamo la stessa sensibilità. Siamo cresciuti in una famiglia molto provinciale, attenta alle piccole cose: le mani, la pasta fatta in casa, i gesti quotidiani. Quella è la nostra fotografia del mondo».

Nel 2023 arrivano le prime uscite e anche X Factor.

«Sì, sono usciti tutti i brani prodotti a Roma e ho fatto X Factor arrivando fino ai bootcamp. Ho aperto Motta, altri artisti, soprattutto a Roma. Nel 2024 ho aperto Ermal Meta al Teatro Romano di Verona: un sogno per me. Poi mi sono fermato due anni».

Una pausa voluta?

«Necessaria. Ho raccolto storie, canzoni. Ora abbiamo prodotto nove brani nuovi con il mio produttore, che era anche in sala stasera. Usciranno nel 2026, il primo a gennaio. Sarà un album, anche se il titolo ancora non c’è».

Che filo tiene insieme questi brani?

«La costruzione. Tutti parlano di costruire qualcosa, in un tempo in cui ci si impegna sempre meno. Alle prime difficoltà si molla. Io stesso ho dovuto fare i conti con i miei difetti, con storie che sono finite e storie che sono diventate canzoni».

C’è un brano che senti particolarmente rappresentativo?

«“Certe giornate”. È ispirato ai miei genitori, al loro amore fatto di resistenza, di problemi, di sentimento. Penso che oggi manchi questo concetto, anche quando si parla di educazione: non avere paura del sentimento, in tutte le sue forme».

Ferrara è ancora dentro le tue canzoni?

«Sì, anche se ho avuto bisogno di andarmene. Me ne sono andato mentre perdevo i nonni, le radici. Li ho amati, li porto addosso, tatuati. Ferrara mi manca per certe cose: i cinema di una volta, la pizza prima del film, vedere i primi dieci minuti alla fine. Mi manca una città che aveva più attenzione per la musica e per i giovani».

E Verona?

«Speravo di trovare più spazio, invece vedo una città che si chiude. Chiudono i locali, mancano luoghi per suonare. Non è una questione di un sindaco o di un altro, è una storia che va avanti da anni. Vale per Ferrara, Firenze, tante città».

Che idea hai oggi del cantautorato?

«Faccio fatica a definirmi cantautore. Una volta era una parola che conteneva un’idea politica, sociale. Oggi vedo un cantautorato più radicale, meno fotografico. Manca la semplicità, manca il sentimento. Io vengo da Springsteen, dallo storytelling. Da noi questa cosa si è un po’ persa».

C’è qualcuno che secondo te la sta recuperando?

«I siciliani. Colapesce, Di Martino. Hanno un’identità forte, una storia potente. Io amo la Sicilia, Palermo soprattutto. Ho un rituale: mercato, cibo, le scalinate del Teatro Massimo. È casa, in qualche modo».

La musica oggi è quasi tutta virtuale. Ti spaventa?

«È così. Il fisico è tornato col vinile, ma per un indipendente è un costo enorme. Io sono autoprodotto: la distribuzione è facile, tutto il resto no. Un album costa, richiede persone, tempo. Questo disco l’abbiamo fatto io e il produttore, praticamente da soli».

La tua voce è molto riconoscibile. Come la vivi oggi?

«Ho capito che non è tutto. Nei primi brani era molto graffiata, protagonista. Nei nuovi c’è più attenzione al testo, all’uso della voce, non alla sua forza. È stata una scoperta: non snaturarsi, ma adattarsi. Portare le canzoni alle orecchie della gente. Conta quello che dici, non quanto forte lo dici».

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