Capita a molti di avere un sogno nel cassetto e coltivarlo per anni. A volte capita anche, purtroppo, di doverlo coltivare, a causa delle circostanze della vita, anche per molto, troppo tempo. Non ci si può fare nulla, se non accettare la situazione e tentare di portare avanti il proprio progetto o il proprio obiettivo perché prima o poi quell’idea, accarezzata per lungo tempo, può trovare l’occasione di prendere finalmente forma. È quanto in effetti è successo a Federico Sacchetti, musicista, cantante e pluristrumentista bresciano di 52 anni, che dopo lunghissima gavetta nel mondo underground della scena nazionale è finalmente riuscito a “partorire” il suo primo vero “figlio” musicale. Un intero album dal titolo “Diversi anni fuori tempo massimo”. Un titolo eloquente, se vogliamo, ma che nasconde anche molto altro. Un album di dieci tracce che raccontano, con dolci pennellate, il mondo interiore di Sacchetti, che ha saputo condensare nelle varie tracce i pensieri, i ricordi e i sentimenti di un’intera vita.

Sacchetti, iniziamo dal titolo. Perché “Diversi anni fuori tempo massimo”?

«Il significato è molteplice; sicuramente ha a che vedere con l’età ormai decisamente non da esordiente, con la decisone di proporre adesso una cosa che forse avrei potuto e dovuto fare prima… sono fuori tempo massimo perché possa essere l’inizio di una carriera musicale più volte sfiorata, tra Sanremo giovani, un quasi contratto con Cheope e le sue edizioni e la scuola di Mogol. E poi ci si rifà al concetto del tempo massimo nei grandi giri ciclistici, come il Tour de France… chi arriva molte ore dopo il vincitore, non necessariamente ha fatto meno fatica, e non necessariamente ha preso sottogamba la tappa, anzi magari ha sofferto di più e vuole concluderla, qualsiasi sia il distacco dal vincitore.»

Non si tratta di un concept album, ma di certo c’è molto di autobiografico in questo lavoro. Cos’ha voluto raccontare?

«Essenzialmente è un album che parla del tempo che corre, che porta scelte, obblighi, conseguenze; già da giovane ho scritto “L’inverno”, immaginando quello che lo scorrere del tempo può lasciare a una coppia, o “Wait”, forse in assoluto il mio primo pezzo, in cui c’era l’attesa per qualcosa, per una speranza di una nuova vita, o ancora il “Macchinista”, che è un ferroviere costretto a chiudere perché dismettono il suo treno a vapore, ma è anche un bambino che cresce e non ha più bisogno dei giochi come il trenino e il Lego. E poi ci sono le scelte, come quella del “Barone Rosso” di disubbidire agli ordini, tema sempre attuale, o “In bilico”, sul cercare di essere sempre la migliore versione di noi stessi, pur stretti tra incapacità e limiti. Infine c’è il tentativo di fermarlo, questo tempo, fissando degli attimi per ritrovare eternamente tua figlia bambina, anche se ormai non è più così.»

Che tipo di esperienza è stata questa, per lei?

«Mi ha dato un senso di completezza, una estrema soddisfazione di avere fatto il meglio che potevo e sapevo, di avere concluso un lavoro che mi rappresenta totalmente, anche se non cambierà la storia della musica e non incontrerà numeri e classifiche di vendita… avevo dei pezzi nel cassetto e dei pezzi del passato da far incontrare nuovamente, dovevo trovare la forza ed il coraggio di riprenderli e concluderli, perché c’era un senso di incompletezza… ora sparito.»

Da dove ha tratto ispirazione per i singoli brani?

«Sono legato al mare. Sono nato a Brescia ma sono molto legato a Marina di Massa, terra di mio padre, dove ho amici e parenti e una casetta… l’ispirazione è sempre stata quella di scrivere “per me”, o su tematiche sociali come per “Ragazza in nero” o “Fine Secolo”»

Dove e con quali collaboratori ha registrato le varie tracce? Che tipo di lavoro è stato?

«Abbiamo lavorato a casa, con molta calma, registrando tutti gli strumenti io e Carlo Maria Toller, a parte le batterie, suonate da Gionni Caniato, e gli archi, per i quali hanno partecipato Daniela Savoldi al violoncello e Alberto Martinelli ai violini e viole; è stato un lavoro di paziente ma allegra sperimentazione, provando strumenti e sonorità, cose per gioco e cose per caso che a volte hanno trovato comunque posto nelle versioni finali. Non avevamo fretta, è stato bello e forse anche l’unico modo a disposizione quando non si ha una band per strutturare i pezzi. A parte il loop alla base di “Barone Rosso” per il resto tutti gli strumenti sono reali, acustici, suonati da un musicista… »

Durante il lockdown non c’è stata la possibilità per gli artisti di lavorare. Come ha vissuto quel periodo?

«Il disco era finito prima della pandemia, nel gennaio 2020. Il lockdown, in realtà, ci ha bloccato in tutti i sensi, anche emotivamente, in fase di mixaggio, e le tracce sono state di fatto ultimate a ottobre 2020. Un anno fa ho provato a fare uscire i primi due singoli, ma presto mi sono reso conto che saremmo di nuovo stati bloccati in casa. Per me, quello, è stato un periodo molto pesante, anche perché a febbraio 2021 mi sono ammalato e sono dovuto rimanere in isolamento per più di due mesi. Molta ansia e zero creatività, poca energia e molto pessimismo… da tutto questo sto provando a uscire veramente soltanto ora.»

Inizia la parte di promozione del disco. Quali sono i prossimi concerti che ha in programma?

«Dopo l’anteprima acustica alla libreria Tarantola di Brescia di domenica 10 ottobre abbiamo fatto nei giorni scorsi un’intervista a “Radio onda d’urto” qui a Brescia, con presentazione in diretta live di alcuni brani. Abbiamo una prossima data acustica il 5 novembre a Collebeato, il mio paese d’origine, ma per il resto è ancora tutto da decidere.»

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