I viaggi iniziano sempre in libreria. No, non per comprare la guida, ma per comprare i libri che prima e durante il viaggio ci aiuteranno ad entrare veramente dentro quel luogo. Gli scrittori solitamente hanno la capacità di descrivere la sensibilità di un popolo e ti aiutano a osservarlo da un punto di vista obliquo, non stereotipato, più vero. E il prossimo viaggio sarà in Marocco. In libreria, ovviamente da Gulliver in via Stella (Verona), l’idea è quella di uscirne con un libro di Paul Bowles (“Il tea nel deserto”) sottobraccio, ma poi mi affido ai consigli del padrone di casa Luigi e ne esco con “Marocco, romanzo” di Tahar Ben Jelloun e con “Le voci di Marrakech” di Elias Canetti. Alla fine entrambi risulteranno un buon grimaldello per capirne un po’ di più. Qualcuno mi dice che il Marocco ha i piedi in Africa, ma la testa in Europa.

Le tombe saadiane a Marrakech, una delle meraviglie del viaggio

In effetti è un popolo che alla fine troverò pieno di contraddizioni, parlano bene (nel senso che in qualche modo si fanno capire) le lingue straniere oltre al francese, la lingua dei loro colonizzatori. L’itinerario scelto prevede un volo d’andata su Fez e un ritorno da Marrakech. In mezzo una puntata a nord, sui monti del Rif, poi a ovest, sulla costa, poi di nuovo nella grande città ex capitale dell’Impero, poi ancora giù verso sud-est e le montagne dell’Atlante e il mistico deserto. Gli ultimi giorni sono dedicati alle valli, alle oasi, alle kasbah e all’altra ex capitale, Marrakech, punto di non ritorno di un viaggio nel tempo e nei colori (tutti estremi), nella natura e nel caos che più caos non si può. Un mix di genti che in qualche modo può rappresentare un po’ tutto il nord Africa di oggi, ambiente ricco di cultura e storia, ma attanagliato da problemi economici, politici e sociali di davvero difficile soluzione.

MOROCCAN BLUES

Noleggiata l’auto appena fuori l’avveniristico aeroporto di Fez, intraprendiamo subito la strada che ci porta a Chefchaouen.

Una strada che ci permette di attraversare una discreta varietà di paesaggi, da quelli più aridi e pianeggianti a quelli più rigogliosi e montuosi, con il colore giallo del grano e il colore verde della vegetazione a farla naturalmente da padroni. La “fauna” (animale e umana) è altrettanto variopinta, con asini, muli, mucche, capre, pecore, cicogne, gatti, cani e soprattutto uomini (tanti, di tutte le età) e donne che vivono a ridosso della strada principale come se fosse non solo l’arteria stradale che collega due importanti realtà del Paese, ma anche quella fonte di necessaria energia per poter vivere e, in qualche caso, sopravvivere. Il caldo torrido aumenta le percezioni olfattive, che virano dai profumi quasi alpini  di alcune zone all’odore più pungente e fastidioso della lavorazione delle olive, che ricorda tanto certe atmosfere andaluse vissute in passato.

L’arrivo, in serata, nella piccola cittadina arroccata sulle montagne del Rif ti proietta in un mondo azzurro e blu a sfumature viola, che rasserena lo sguardo dopo l’accecante luce che ti ha accompagnato per gran parte del trasferimento. Un colpo d’occhio che giustifica, da solo, il viaggio fino in Marocco. E siamo solo all’inizio. La mattina seguente un silenzio irreale ci accoglie per le stradine e i vicoli della città. Un silenzio che inconsciamente aiuta ad immergersi ulteriormente nell’atmosfera della Medina e a comprendere (sia pur lontanamente) questa continua “corrispondenza d’amorosi sensi” fra terra e cielo che il blu acceso con cui sono dipinti i palazzi sembra suggerire. I rumori dei nostri passi riecheggiano fra le strade deserte della città, anche se poi, con il passare delle ore, pian piano Chefchaouen si rianima tornando ai ritmi che la vita di tutti i giorni offre. E che nel corso del viaggio torneranno familiari.

IMPORTANZA CAPITALE

Arrivando alla capitale Rabat, dopo 400 km di strada (durante i quali hai attraversato città caotiche, vitali e ovviamente anche un po’ “sgarrupate” come Ouzzane e Kenitra e superato mezzi di tutti i tipi, da autobus guidati da conducenti a dir poco spericolati a furgoni affollati ogni oltre ragionevole norma di sicurezza) ci si ritrova improvvisamente catapultati in Svizzera. La città imperiale dove vive Re Mohamed VI è, infatti, tenuta benissimo: viali alberati, prati tagliati all’inglese, pulizia ovunque, una metropolitana di superficie moderna ed efficiente (anche se sottoutilizzata), musei avveniristici e vestigia antiche ben conservate. Anche le spiagge che affacciano sull’oceano sono ben tenute e organizzate, frequentate da surfisti e famiglie, in un mix curioso e sereno. Le gru che si stagliano oltre i tetti denunciano la presenza di nuovi lavori per costruire altri luoghi di interesse e d’aggregazione, un porto nuovo, un nuovo teatro e molto altro ancora. Gli investimenti, insomma, qui sembrano non mancare.

Una veduta di Rabat

Anzi. Le bandiere del Marocco sventolano in ogni angolo e vorrebbero a loro modo sottolineare un grande senso di appartenenza e orgoglio. La medina, soprattutto nella parte ebraica di Mellah, è come sempre e per fortuna “zona franca”, dove l’ordine precostituito (ma verrebbe da dire “imposto”) non può comunque arrivare. Il caos vitale del Marocco la fa anche qui da padrone, in una sorta di mercato globale che vede mischiarsi turisti e autoctoni alla ricerca dell’affare del giorno o del souvenir da portare come trofeo in patria. Inutile dire che alla fine risulterà la parte più affascinante della città.

CICOGNE UBER ALLES

Come già detto il Marocco è il paese dei muli, dei gatti randagi (avevo sentito parlare di quelli di Istanbul, ma anche qui non si scherza in quanto a numero di felini), delle pecore (la pastorizia è una delle prima fonti di sostentamento del paese) e soprattutto – ma dovrei scrivere SOPRATTUTTO – delle cicogne. Già, proprio loro, che da piccoli ci dicevano fossero le principali responsabili del problema della sovrappopolazione mondiale ma che in pochi, almeno in Italia, hanno mai visto davvero. Qui al contrario sono dappertutto e con i loro nidi enormi colonizzano alberi, pali della luce , comignoli e, sa va sans dire, antichi siti archeologici.

Cicogne a Chellah

Come ad esempio quello di Chellah, vicino a Rabat, un’antica colonia romana (qui arrivava l’ultima strada dell’Impero… non plus ultra) poi diventata importante città commerciale durante il dominio delle varie dinastie marocchine. Arrivare e vedere tutti questi grandi uccelli appollaiati in posizione dominante ed essere – pur nel loro biancore – vagamente minacciosi è stato, lo confesso, un po’ inquietante. Mi ha ricordato un po’ la scena di “Apocalypse Now”, quando Martin Sheen e i suoi compagni arrivano nella tana del Colonnello Kurtz e tutti i suoi “schiavi” li attendono al varco, presidiando le rovine dell’antica città situata sulle rive del fiume Nung. Insomma, inizialmente ho avuto quasi un fuggevol senso di paura, che però è poi svanito pensando al fatto che in fondo la natura si è riappropriata delle vestigia umane. Niente di più. Un destino che forse un giorno lontano accarezzerà anche tutte le grandi opere contemporanee. Chi, ai tempi dell’Impero Romano, pensava che si sarebbe disgregato in quel modo e con lui tutti i segni del suo passaggio?

CITTA’ IMPERIALI

L’itinerario ci porta – attraverso autostrade di buon livello – a Meknés e poi a Fez nuovamente, dove passeremo la notte. Meknés vanta 45 km di mura difensive. E un mausoleo dedicato a uno dei padri fondatori del Marocco (teoricamente uno dei pochi siti religiosi visitabili per i non musulmani) in eterna ristrutturazione (e quindi non accessibile). Peccato. Un problema che riscontreremo anche altrove (Palazzo Badi e la Medersa Ben youssef a Marrakech, ad esempio) e che pone una domanda seria: se il Marocco vuole sfruttare al massimo la sua più grande risorsa, il turismo, deve sistemare quanto prima tutte queste situazioni. Perché la delusione, in qualche caso, può abbassare il livello di soddisfazione finale. In serata arriviamo a Fez e il navigatore decide di concedersi una pausa. Non male in una delle città più caotiche del mondo.

Il souk

I marocchini a cui chiediamo indicazioni dimostrano in qualche caso di non conoscere assolutamente la strada richiesta, ma pur di non fare “scena muta” decidono di mandarti di qui o di là, senza scrupoli. Tanto in qualche modo te la caverai. Il problema vero è che alla lunga perdi tanto di quel tempo (e pazienza) che il risultato finale è quello di doverti affidare a qualcuno, ovviamente pagandolo, affinché ti porti fino a destinazione. Il riad Seffarine è a due passi dall’omonima piazza, che accoglie una scuola di corano e alcuni negozi di corde e che producono materiali in ferro. Il riad è un’oasi di pace all’interno della città e con i suoi legni e i suoi profumi rappresenta un’imprescindibile momento di relax prima di affrontare il caldo, i suoni e la difficoltà labirintica della medina, con i suoi souk e la sua popolazione in salsa agrodolce.

LA FESTA DELLE PRINCIPESSE

Il 27esimo giorno di Ramadan c’è qui l’usanza di regalare alle figliolette di casa una serata da vere e proprie principesse. Le piccole (di età ovviamente variabile) vengono fatte vestire con i loro abiti tipici, in qualche caso vengono persino truccate e trasportate per la città su carrozze. Per l’occasione viene anche girato un video che diventerà per le fanciulle un ricordo indelebile. Osserviamo tutto questo mentre ceniamo sulla terrazza del ristorante R’Cif, vicino all’omonima piazza e centro dei festeggiamenti nell’enorme Medina di Fez. Ci sono giù in strada migliaia e migliaia di persone che animano, con il solito immancabile mercato, ma anche con musica, attrazioni per i più piccoli e via dicendo, lo spazio circolare della piazza stessa e le vie limitrofe. La festa durerà a lungo, ben oltre le tre di notte, lasciando poi la città dormiente fino alle undici, la mattina seguente, quando pian piano le varie attività commerciali cominceranno a risvegliarsi per poi diventare velocemente il consueto ammasso caotico di umanità dei souk.

Noto che in ogni città i taxi hanno un colore diverso: gialloneri a Rabat, rossi a Fez, verdi ad Azrou e pesca a Marrakech e dintorni. E a proposito di colori: la maggior parte delle decorazioni a piastrelle delle case e dei riad locali presentano gli stessi cinque. Secondo l’interpretazione più accreditata (e poetica) il verde rappresenterebbe i berberi delle montagne, il giallo quelli del deserto e il blu quelli della costa, mentre il bianco e il nero rappresenterebbero la luce e le tenebre. E la loro eterna contrapposizione. Ci lasciamo guidare da Idriss nella Medina, scoprendone storia e tradizioni, in questo mix fra ebrei, arabi, berberi e popolazioni di varia provenienza. Le concerie, i piccoli negozietti, le case dei venditori di tappeti.

Le concerie di Fez

Prima di lasciare la città cerchiamo e troviamo il Café Clock, un centro culturale dove si può mangiare anche hamburger di dromedario. Buono, ma non memorabile. Il centro, invece, ospita una serie di persone che oltre a bere qualcosa o approfittare del wifi si scambiano informazioni, leggono, riposano.

L’ATLANTE. IL DESERTO

Dopo Fez inizia il lungo viaggio verso sud-est… un viaggio che ci conduce attraverso le montagne grigio-azzurre dell’Atlante, il mitico monte che ha dato il nome alle cartine geografiche di tutto il mondo e che rappresenta anche un po’ un valico psicologico oltre il quale c’è il grande deserto del Sahara e la sua vastità di dune, sabbia e vento. Sul monte Atlante incontriamo scimmie docili (addomesticate o abituate alla presenza dell’uomo) e greggi immensi di pecore, sorvegliate a vista dai loro pastori. Comunità rurali isolate, a volte prive persino di case in muratura (si scorgono, in lontananza, capanne costruite con materiali di fortuna) e dei servizi minimi. C’è un’atmosfera rarefatta, con pochissime persone che si scorgono qui e là, ai margini delle strade. Una volta discesi dalla parte opposta, dopo aver attraversato numerosi villaggi, il paesaggio cambia radicalmente e l’arsura del deserto comincia immediatamente a farsi sentire. Sulla vegetazione e sull’umore.

Nel deserto il “mezzo” più usato è il dromedario

L’arrivo a Merzouga, poi, è di quelli memorabili con carovane di dromedari che scenograficamente costeggiano le strade, come ad avvisarti, simbolicamente, di essere entrato in una nuova, selvaggia, dimensione. Verremo accompagnati proprio a bordo di alcuni dromedari da un berbero (a piedi) fra le dune dorate al nostro campo tendato. Una pausa fra le dune ci permetterà di fotografare uno dei tramonti più belli mai visti nella nostra vita e di entrare sentimentalmente nel mood. Durante la notte, dopo la cena, balleremo attorno ad un fuoco, sotto un tetto di stelle accecanti, con i ritmi sincopati dei bonghi berberi. Una danza per esorcizzare la paura che il silenzio desertico e la sua immensità inconsciamente instilla nell’animo di tutti noi.

HOLLYWOOD, MAROCCO

Ci siamo lasciati alle spalle i silenzi del deserto e, attraversoi valichi dell’Atlante, ci dirigiamo verso Marrakesh, per quella che sarà l’ultima tappa del nostro viaggio. Lungo la via incontriamo antiche kasbah, cittadelle fortificate costruite con fango e paglia (in una delle quali abbiamo anche dormito, per un’esperienza che ci ha riportato indietro nel tempo), e oasi enormi di palmeti e ulivi, abbiamo incontrato anche gli OurzaWood, studios cinematografici (qui hanno girato tantissimi film: da “Lawrence d’Arabia” a “Il gladiatore”, “Le crociate” e “Kundun”, “Il tè nel deserto” ma anche alcuni episodi de “Il trono di spade” e altre celebri serie tv) e le famose Gole di Todra, luogo mistico la gente utilizza quasi come una sorta di piscina comunale, in un’atmosfera rilassata e molto amichevole.

Una kasbah, incontrata nel sud del paese, fra il deserto e Marrakech

Lungo il nostro percorso abbiamo incontrato quasi esclusivamente berberi, una popolazione diversa nell’indole e nei tratti somatici da quella araba, in generale molto gentile e rispettosa dell’ambiente che li circonda. Parlano piano, in armonia con la natura silenziosa e sorridono timidamente.  

MARRA-KAOS

L’arrivo in serata a Marrakesh ci ha riportato al caos che avevamo già incontrato a Fez, qui persino amplificato. Dopo giorni caratterizzati da suoni ovattati e profumi selvaggi, l’accoglienza della grande città è stata quasi traumatica. Città immensa, con le sue inevitabili contraddizioni. Come a Fez, come a Rabat, dove però la povertà viene in parte nascosta. O semplicemente spostata. Qui, invece, si manifesta in tutta la sua sconvolgente potenza, anche se in generale rimane una manifestazione ancora dignitosa, di questa piaga.

Questo è anche il luogo eletto da Pierre Bergé e Yves Saint Laurent per condurre una vita di agi, in un eden creato appositamente per preservare il loro amore: i giardini Majorelle, poi donati alla città ed ulteriore elemento attrattivo per un turismo che vede oggi arrivare tantissimi orientali e americani, oltre che i soliti francesi, spagnoli (vicini di casa) e italiani.

La piazza principale, Jeema El Fna, è un mondo di incantatori di serpenti, venditori di spezie, scrivani e via dicendo. Attraversarla di giorno e di notte significa assaporarne diverse caratteristiche e nature. Il suo essere centro e periferia allo stesso tempo, simbolo e sublimazione di un carattere, quello marocchino, gigione e furbetto, tenero e bastardo, ingenuo e maledettamente complesso.

Jemaa El Fna, cuore pulsante di Marrakech, di giorno e di notte

Il souk è un punto di incontro fra occidente e oriente, dove i turisti in cerca del souvenir da regalare vengono accalappiati dai commercianti, che hanno il pregio di non insistere più di tanto, ma di cercare in qualche modo di attirare la tua attenzione, il tuo sguardo. Una volta abboccato all’amo, per il turista è quasi impossibile sottrarsi ad un acquisto. Che, considerati gli stipendi medi di queste latitudini, è assolutamente un toccasana per l’equilibrio familiare del commerciante. Il problema vero è che vendono tutti le stesse cose. Nel souk le singole stradine si differenziano per la merce esposta: quella dei pellami, quella delle lampade, quella delle babbucce e via dicendo.

Mohamed nel suo negozio Zen Kesh

Chi ha fatto una scelta diversa è Mohamed, che dopo aver vissuto quattro anni in Arabia Saudita (parla, peraltro, un ottimo inglese) ha deciso di tornare in patria e avviare la propria attività, rileggendo l’arte e l’artigiano locale in chiave più moderna. Uno sguardo indietro, alle tradizioni secolari del proprio popolo (in particolare quello di parte berbera) e uno sguardo in avanti, con un design allo stesso tempo moderno e soprattutto unico. Il risultato? È un buon mix che forse vale la pena notare. Il suo negozietto (“Zen Kesh”, cercatelo sui canali social) è un po’ nascosto ed è un piccolo capolavoro che getta un faro di luce su una generazione – quella della gioventù marocchina – che vive in un luogo magico, fra i più belli al mondo, ma con atavici problemi di convivenza e non solo, la cui soluzione – allo sprovveduto visitatore – appare ben lontana dall’essere trovata.