Come comunicare al meglio con i propri figli, specie in età adolescenziale? A rispondere a questa domanda ci pensa “Genitori Ok”, libro scritto a sei mani da Carlo Matteo Callegaro (pedagogista clinico, insegnante, autore e docente a contratto presso l’Università di Verona), Arianna Montagni (pedagogista clinica, mediatrice familiare) e Tatiana Ruaro (pedagogista clinica).

Il testo si propone di offrire spunti di riflessione e consigli, validati da ricerche in materia, per rendere i propri figli persone “sicure, forti e gioiose”. Per conoscere meglio questo che è in primis un progetto per i genitori di tutta Italia nato tra Verona, Trento e Vicenza; abbiamo incontrato l’autore Carlo Matteo Callegaro, che ci ha parlato di questo libro nato dal dialogo con gli stessi genitori che lui e le due colleghe hanno seguito, come risposta ai loro bisogni.

Il libro fa parte del progetto omonimo che porta avanti con Arianna Montagni e Tatiana Ruaro. Come avete iniziato a collaborare e in cosa consiste il progetto “Genitori Ok”?

«“Genitori Ok” è un progetto che nasce più di dieci anni fa con lo scopo di diffondere le migliori pratiche educative ai genitori. Io, che bazzico nel mondo universitario da tanti anni, mi sono reso conto che si fa fatica a far trasudare le informazioni, non per un motivo specifico ma perché appunto serve tempo, energia e anche la capacità di creare collegamenti. Era una rivista, poi è diventato un sito, poi adesso è essenzialmente una comunità di più di 2.600 genitori in tutta Italia che ha avuto l’esplosione, ovviamente, durante il periodo pandemico. Questo però ci ha permesso, e tutt’ora ci permette, di raggiungere tutti i genitori d’Italia e anche fuori Italia. Ricevo tante richieste e messaggi di genitori che vivendo in zone più lontane dalla città o dai centri, si trovano soli. “Genitori Ok” è una risposta alla solitudine dei genitori e il libro è la sintesi dove abbiamo messo assieme quella che è la nostra filosofia. Abbiamo anche visto le offerte di altre realtà che operano nel nostro settore dove ci si concentra molto sulla prima infanzia. I primi mille giorni sono sicuramente fondamentali poi però c’è questo vuoto, diciamo, dai 12 anni su. Invece ce ne sono di cose da dire.»

Il periodo pandemico ha quindi svelato ai genitori queste problematiche di comunicabilità con i propri figli?

«Sì. Per assurdo molte famiglie si sono accorte che non erano in grado di costruire un dialogo con i loro figli adolescenti, perché si sono ritrovate chiuse dentro la stanza con maggiore tempo a disposizione. Perché, purtroppo, questa è un po’ la nostra società attuale, così accelerata e centrata sulla performance che fa perdere quelli che sono i tempi naturali di una famiglia. Tanti ci raccontano quanto è difficile che solo cenare assieme. Quei momenti, che sono i momenti pregiati della famiglia sono sempre occupati da attività e impegni. Questo va di scapito di tutti, sia dei genitori che dei figli.»

Il libro si apre con la frase “Quando nasce un figlio nasce anche un genitore”. Le problematiche a cui si cerca di dare risposta nel libro sono state intercettate parlando con genitori delle generazioni X, dei baby-boomers o con i Millennials?

«Scriviamo qui che ci troviamo di fronte a una grande sfida come società. Fino a una, massimo due, generazioni fa, l’aspetto educativo aveva degli elementi di semplicità. Tu aiutavi i tuoi figli a orientarsi all’interno di una società che conoscevi e di cui avevi fatto esperienza. Oggi sono chiamato a orientare i miei figli all’interno di una società che è diversa da quella che io ho vissuto. Quindi ogni giorno un genitore di un adolescente deve nascere. È difficile, per esempio, orientare i ragazzi nella scelta della scuola superiore e dell’università. Perché? Perché i vecchi paradigmi non funzionano più. Le dieci professioni più cercate oggi dieci anni fa non c’erano. Uno dei nostri cinque pilastri è la creatività. Bisogna essere creativi, e pensare a soluzioni diverse. Altrimenti questa differenza generazionale crea quella frattura di non possibilità di comunicare.»

Nel libro si parla anche di una comunità educante. È una comunità ancora fisica o è ormai una comunità social?

«Io sono partito tanti anni fa prendendo come spunto un proverbio africano: “Per crescere un bambino serve un villaggio”. E una delle cose che si sono perse è proprio una co-partecipazione del mondo degli adulti nella crescita dei ragazzi. Che possa esserci una comunità di adulti che li incontri in presenza o online va bene qualsiasi, non è il vero tema. È importante riappropriarsi dell’educazione dei figli e impegniamoci ad educare non solo i nostri, ma anche quelli delle persone con le quali veniamo a contatto. Questo ci aiuterà a migliorare un po’ la nostra società.»

È molto interessante l’attenzione alle parole posta nel libro. Che cosa ci insegna rispetto a questa società e perché avete deciso di soffermarvi su questo aspetto dedicandoci tante pagine?

«È parte della mia ossessività. Ho scelto di inserire un capitolo sulla comunicazione non violenta e mi sono ripromesso che ci sarà un prossimo libro in cui tratterò solo quello. Le parole sono fondamentali perché ricostruiscono l’immagine del mondo all’interno della nostra testa. Purtroppo in questo mondo, dove c’è una moltiplicazione del volume delle parole, c’è un impoverimento della loro qualità. Aiutare i genitori a esprimersi utilizzando determinate parole non è indifferente. Per l’essere umano quello che viene detto dal genitore viene introiettato in maniera molto salda. Se io dico “Mio figlio è pigro” sto usando una parola che rimanda a un giudizio morale e costruisce nell’identità del ragazzo, un’immagine di sé che lo porta poi conseguentemente ad agire in quella direzione. Perché se tu mi definisci pigro, io mi sento pigro e quindi perché mi devo alzare dal divano? Anche solo cambiare l’uso di questa parola e dire “Mio figlio in questo momento è poco attivo” cambia la prospettiva. Primo perché dico “in questo momento” e l’oggi non preclude un domani e poi dò una descrizione di un comportamento che fa attivare un pensiero, che diventa poi un’azione di ricerca e mi permette, se mai, in un secondo tempo, di fare delle cose. Dobbiamo stare attenti, non puoi dire a tuo figlio “Sei pigro, anche oggi hai preso un brutto voto perché non c’hai voglia di studiare”. Tutte queste cose nascono, purtroppo con l’intento di volere educare i figli ma lo vanno a distruggere. Mio papà diceva sempre “La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”. Non vuoi andare in quella direzione, però usando quel linguaggio tu ci stai andando lo stesso.»

Nel libro ci sono sei storie, che sono state raccontate proprio per il fatto che voi avete seguito questi casi. Se da un lato andare dallo psicologo è un tema di cui si parla con maggiore frequenza e libertà, quanto è sdoganato andare da un pedagogista e farsi seguire nella crescita dei propri figli?

«Si sta sdoganando, soprattutto perché molti genitori capiscono che l’incontro con un professionista può migliorare e ottimizzare il loro rapporto con le loro famiglie. Io ho cominciato questo lavoro 25 anni fa e sicuramente era molto meno conosciuto. A volte bisogna stare attenti a non essere troppo duri, però ci deve essere qualcuno che dice questa cosa va bene e questa cosa non va bene perché purtroppo siamo in una società dove tutto è opinabile. Quando io parlo di ricerca scientifica, parlo di contenuti che sono stati validati da persone, esperienze e ricerche. Oggi tutti si improvvisano e dicono la loro nel campo dell’educazione. Questo è un problema perché creano disorientamento. È come se io mi mettessi a discutere di questioni mediche. Posso dire la mia se sono a cena con gli amici ma nel momento in cui mi espongo devo avere la responsabilità professionale di dire questo. Se dico al genitore “Attento che quelle parole che stai usando creano delle ferite” ho una marea di letteratura dietro, oltre all’esperienza professionale, che giustificano la cosa.»

Tra i vari studi che vengono citati in particolare ci si sofferma su quelli del professor Polito. Perché sono così rilevanti?

«Questo è sul tema della motivazione perché c’è anche qui una grande disinformazione. Siamo, io lo chiamo così, nel periodo della “cultura di Karate Kid”. È il “Se vuoi puoi” e siccome lui vuole vincere, vince. No, la vita non funziona così. È importante avere un orientamento, ma altra cosa è la motivazione. Il professor Polito, che è vicino a noi, ha scritto dei libri importanti sul tema della motivazione, da un punto di vista scientifico. La motivazione non è un prerequisito ma qualcosa che costruisci giorno per giorno. Scaricare la responsabilità della motivazione allo studio e all’impegno ad un ragazzo è la cosa peggiore.»

Lei, come Arianna Montagni e Tatiana Ruaro, nel libro racconta anche il suo percorso da genitore. Ma quanto c’è anche della sua esperienza di figlio?

«C’è, perché comunque sono, diciamo, un figlio d’arte. Mia madre e mio padre erano insegnanti quindi il tema dell’educazione è sempre stato la base della mia crescita. Quello che porto a casa dalla mia esperienza di figlio è il desiderio di approfondire ma soprattutto, l’accuratezza, il non semplificare. Quindi andare dentro i problemi il più possibile. Quando scrivo per il blog oppure per una pubblicazione, eccetera, prima di esprimermi c’è ricerca. Il pressapochismo e l’improvvisazione non servono a nessuno, anzi disorientano le persone.»

C’è già un altro passo oltre al libro?

«Il passo oltre il libro alla community è la creazione di una membership, una comunità che navigherà fuori dal mondo dei social in un ambiente di proprietà che ci permette di avere un contatto diretto, non mediato, e che ci permette di gestire meglio i materiali, gli eventi e anche di essere più liberi dallo strapotere dei social. Per essere anche più responsivi, rispondere ancora più velocemente e offrire un servizio più adeguato.»

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