L’Inferno è un carcere. E come ogni carcere che si rispetti è gestito da dei carcerieri.

I carcerieri sono perlopiù mostri: centauri, arpie, minotauri, cani a tre teste. Tutto un bestiario pagano rivisto in chiave cristiana. Ci sono anche i diavoli. Ma di quelli magari ne parliamo in un’altra occasione.

Nel canto XXXII dell’Inferno, Dante e Virgilio incontrano i giganti, ovvero i custodi del pozzo che collega l’ottavo col nono cerchio. All’inizio a Dante sembrano delle “torri”.

Però che come su la cerchia tonda

Montereggion di torri si corona,

così la proda che ’l pozzo circonda

torreggiavan di mezza la persona

li orribili giganti, cui minaccia

Giove del cielo ancora quando tuona.

I giganti torreggiavano come le 14 torri che fanno corona al castello senese in Val d’Elsa.

Sono creature, ma sembrano edifici. Sono orribili, messi sotto scacco da Giove, che da lungi saetta (come scriveva quello). E questo è un fattore da considerare e lo vedremo.

Ma Dante dà una giustificazione interessante, sul perché si siano estinti e non ci siano più. E la motivazione è legata ad una sorta di equilibrio cosmico. A porre il freno a questi bestioni ci pensò la Natura nella sua saggezza.

Natura certo, quando lasciò l’arte

di sì fatti animali, assai fé bene

per tòrre tali essecutori a Marte.

E s’ella d’elefanti e di balene

non si pente, chi guarda sottilmente,

più giusta e più discreta la ne tene;

ché dove l’argomento de la mente

s’aggiugne al mal volere e a la possa,

nessun riparo vi può far la gente.

La Natura, dice Dante, fece bene quando smise di produrre (ma Dante scrive, “quando lasciò l’arte”) tali creature, in modo da impedire l’impiego di tali combattenti nelle guerre.

Questo esercito di Marte, guerresco e selvaggio, viene limitato dalla Natura e dall’arte. E arte nel poema è spesso parola che riguarda l’azione di Dio. Dio è il maestro. L’artifex supremo. La Natura opera come figlia assennata. Ne fa le veci.

Il potere smisurato dei gianti e dell’uomo

Però Dante previene un’obiezione possibile: nel mondo esistono animali mastodontici, le balene, gli elefanti, e la Natura continua a produrli, e non se ne pente. Come mai?

Il problema non è la grossezza in sé, il problema si pone quando questo tipo di potenza smisurata (“possa”) sia in balia dell’intelletto (“l’argomento della mente”) e della predisposizione al male (“mal volere”).

In altre parole: i giganti sono come gli esseri umani. Capaci di pensare il male. Logico quindi, che tale forza, potenzialmente pericolosa, debba essere frenata.

I giganti in Dante, come nel mondo antico, sono simbolo di superbia. Questi superuomini ribelli li ritroveremo nella prima cornice purgatoriale, proprio come esempio di superbia punita.

Si sa, giganti e titani, creature che popolavano un mondo antichissimo, anteriore alla presenza degli Dei, sono sempre stati un grattacapo per Zeus.

Perché i giganti pagani attentarono il cielo, l’Olimpo, così come Nembròt/Nimrod, gigante biblico, “presuntuosissimo”, scrive Dante in un’altra opera, osò innalzare la torre di Babele.

Vedea Nembròt a piè del gran lavoro

quasi smarrito, e riguardar le genti

che ‘n Sennaàr con lui superbi fuoro.

I giganti delle megalopoli

E noi che rapporto abbiamo con i giganti?

I giganti ci sono. Vivono tra noi. Nelle megalopoli. Nel senso di grandioso (imperialista, faraonico) che tanto ci affascina. In tutto ciò che è colossale, imponente, massiccio. Nelle moltitudini, nelle folle oceaniche, nell’esplosione demografica, nell’urbanizzazione estesa e incontrollata.

James Hillman parla di “consumismo gargantuesco”, “immane devastazione o devastante immanità”. Di nuovo si pone un problema di equilibrio.

E appunto, il titanismo, il gigantismo rappresenta il senso di dismisura, di hybris, che pervade quando siamo in assenza di limiti, “quando dimentichiamo o trascuriamo gli dèi”.

Chiaro che nel nostro sistema, sostanzialmente razionalista, simili argomentazioni possono essere viste con distacco, sospetto o sufficienza. Che ce ne facciamo noi degli dèi?

Testimoni di un sistema che cresce fino al collasso

Ma se per divino pongo l’Altro, sia esso il prossimo mio, la natura, l’ambiente (“la divina foresta spessa e viva”, scrive Dante); se il mio rapporto diventa un rapporto responsabile, dove non sfido ogni confine, in una folle brama di conoscenza, senza amore, dove non consumo in maniera ingorda e esasperata, allora posso dare un nuovo valoro a quel Zeus/Dio.

Noi tutti siamo testimoni impotenti di un sistema che cresce, cresce, cresce e prima o poi andrà a collassare in se stesso.

Pensiamoci bene, anche in proporzioni ridotte, la spinta all’eccesso, al dopato, ci domina ogni qual volta i nostri pensieri necessitano di essere stimolati, potenziati, sviluppati, pompati.

Tutto deve essere iper rumoroso, iper divertente, iper violento, per poterci distrarre. E quindi s-centrarci. Sbilanciare il nostro baricentro. Anestetizzare la nostra coscienza.

Oltre il linguaggio privo di senso

E tutto questo, così come i giganti di Dante, è essenzialmente brutto. Non segue l’armonia della Natura e della sua arte.

Il gigantesco si esprime attraverso parole incomprensibili.

«Raphél maì amèche zabì almi»,

cominciò a gridar la fiera bocca,

cui non si convenia più dolci salmi.

Così parla Nembròt.

Sembra di sentire l’infernale gramelot di Pluto (“Pape Satàn, pape Satàn aleppe!”). Siamo davanti ad uno di quei rompicapi di cui vanno ghiotti i dantomani sospettosi. La parlata del gigante ha una sonorità semitica. Sembra ebraico e infatti viene in qualche modo messo in opposizione ai “dolci salmi”.

Come per Pluto anche qui abbiamo cinque parole incomprensibili. Ma soprattutto cinque parole svuotate di senso. Puro significante. Perché questa espansione estrema svuota di significato. Diventa facciata. Edificio. Torri diroccate. Così scrive San Paolo nella sua Prima lettera ai Corinzi: “Ma nella chiesa preferisco dir cinque parole intelligibili per istruire anche gli altri, che dirne diecimila in altra lingua”.

Dobbiamo tornare al senso. A poche parole. Chiare. Intellegibili.

E quindi? Come farà Dante a superare la prova dei giganti? Come riuscirà ad accedere al nono e ultimo cerchio?

Una creatura “mostruosa” in armonia con la natura nuota tra alcune parole di Dante.

Tornare alla bellezza densa di significato

Con l’aiuto di Virgilio (e quindi della sapienza pagana). Quando l’antico maestro si troverà al cospetto del gigante Anteo, si rivolgerà a lui blandendolo con una elegante invocazione, nella quale andrà a promettere gloria eterna. Lo abbindolerà con parole seducenti. Ricordiamo che Virgilio è maestro della “parola ornata”.

Ancor ti può nel mondo render fama,

ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta

se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama.

Anteo, superbamente, accetta ediventa una sorta di ascensore che permette ai due di scendere al livello inferiore.

Dante ci propone un antidoto. I giganti esistono ma sono messi al servizio della Sapienza. Virgilio non ne è dominato. Non ne è stritolato. Il suo intelletto, la sua ragione, il suo essere orientato sempre al “parlare onesto”, alla giusta causa, diventano le redini necessarie per mantenere saldo il freno.

Questa è l’operazione che dobbiamo noi fare. In qualche modo è un tornare alla “dieta” del Veltro: “sapïenza, amore e virtute”.

Ma è anche una risposta estetica. È un tornare alla bellezza. E il mondo antico è un mondo fatto di bellezza.

Ma è una bellezza non solo cosmetica. È una bellezza densa, piena, fatta di vuoto, silenzio, intimità. Un fare anima (questa forse è l’unica vera palestra alla quale dovremmo dedicarci quotidianamente).

Un essere in relazione.

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