All’ingresso principale dell’Hôpital de la Salpêtrière a Parigi si trova la statua dedicata a Philippe Pinel, medico francese vissuto tra il 1755 e il 1826. Pinel si dedicò allo studio della psichiatria e avviò una tra le più significative rivoluzioni culturali, il cui riverbero, seppur a singhiozzo, giunge fino ai giorni nostri.

Dalle istituzioni totali alla critica di Foucault

Quando, verso la fine del Settecento, vi entrò, la Salpêtrière era ancora un luogo di ricovero voluto da Luigi XIV con la promessa che “tutti i poveri sarebbero stati raccolti in locali puliti, in modo da essere curati, istruiti e ricevere un’occupazione”.

Si trattava, in realtà, di un luogo sovraffollato e disumano dove le persone venivano deprivate di ogni dignità, dove venivano internati “i più miserabili emarginati e reietti della società”, e che divenne simbolo dell’istituzione psichiatrica in Francia. C’era infatti un’area dedicata ai “pazzi”, tra cui persone socialmente pericolose o sovversivi politici. Ma anche donne, spesso considerate “alienate” semplicemente perché non erano inclini alla vita domestica, non volevano sposarsi o avevano un pensiero divergente rispetto al proprio nucleo familiare.

Qui le condizioni disumane erano ancora più eclatanti, in quanto gli internati venivano incatenati alle pareti delle celle, abbandonati a se stessi tra urla, topi e fetore.

Ebbene, Pinel eliminò letteralmente le catene e cominciò a considerare i pazienti psichiatrici come malati (e non criminali) di cui prendersi cura. Cominciò così un nuovo, rivoluzionario approccio alla malattia mentale.

Dopo poco più di cinquant’anni fece il suo ingresso alla Salpêtrière il dottor Charcot, che ampliò lo sguardo di Pinel facendo diventare il nosocomio parigino un centro psichiatrico famoso in tutto il mondo. Ad ascoltare Charcot giunse anche un giovanissimo Sigmund Freud.

Basaglia e la nascita di una nuova cultura della cura

Il gesto di Pinel non può che ricordare un’altra significativa e rivoluzionaria liberazione dalle catene dello stigma, della disumanizzazione, della deprivazione della dignità e dei diritti umani: quella voluta da Franco Basaglia, che spinse al centro dell’interesse della psichiatria la persona e non la malattia.

Simbolo della forza del suo pensiero è sicuramente la scultura di Marco Cavallo che, con la pancia piena di desideri, bisogni, capacità e sogni dei pazienti, passeggiò con loro e tutto il personale dell’ospedale psichiatrico di Trieste per festeggiare la “conquista” della libertà e dei diritti di tutte le persone, grazie all’approvazione, nel 1978, della Legge 180 (conosciuta come Legge Basaglia).

Di quel giorno di festa resta un altro simbolo forte: lo smantellamento di una parte della cancellata dell’ospedale di Trieste, resosi indispensabile perché Marco Cavallo era troppo grande e non poteva uscire. Un gesto di necessaria apertura dei manicomi verso la città; un gesto di abbattimento dell’isolamento, della reclusione e della negazione dei diritti e della dignità umana. Un gesto che sottolinea inoltre che la follia appartiene a tutti e che “visto da vicino, nessuno è normale”.

Con Basaglia, l’onda di Pinel arriva fino ai giorni nostri e così i “malati mentali” vengono slegati dagli stereotipi e dalla prigionia delle diagnosi.

Questo cambio di prospettiva significa libertà, dignità e nuove opportunità di vita, ma richiede che si continui a investire nella cultura di una psichiatria che metta al centro le persone e non la malattia; che non perda di vista che, per definizione, salute non significa solo assenza di malattia.

Per questo è importante non solo investire in risorse, ma soprattutto utilizzarle al meglio (sarebbe già molto utilizzarle a pieno: per la salute mentale ne viene impiegato solo il 3% invece del 5% della spesa sanitaria destinata alla salute mentale).

Arte, follia e sguardo contemporaneo

Nonostante questa legge abbia fatto e faccia scuola in Europa e in molte parti del mondo, ci si scontra ancora con una realtà che fatica a fare i conti con strutture e risorse sanitarie non in grado di far fronte alle esigenze di tutti i pazienti e dei loro familiari.

Oggi si rende di certo necessaria una rivisitazione della Legge 180, sia perché la società è cambiata, sia perché, avendo incontrato resistenze e difficoltà, a livello nazionale è stata applicata in modo parziale o addirittura non è affatto stata applicata. Ciò ha generato un percepito spesso molto diverso dalla sua reale efficacia, che si è declinato in allarmismi impropriamente orientati, di nuovo, verso la rotta sbagliata: la pericolosità sociale (senza nessuna evidenza scientifica).

In linea con altri contesti, il disagio e la sofferenza vengono fatti coincidere con violenza, mancanza di decoro e pericolo da reprimere, rinchiudere ed eliminare: occhio non vede, cuore non duole.

Ma il vero pericolo sta proprio nella negazione della complessità della realtà, evitando così di prendersene cura.

Tra i DDL presentati in parlamento in materia di tutela della salute mentale, cattura l’attenzione – e un po’ di preoccupazione – quello presentato da FdI: sembra lo specchio di una deriva ben orchestrata ai fini di una propaganda più ampia, che vede come unica fonte di approvazione “la pancia” degli elettori.

E cosa c’è di più facile se non pizzicare il senso di sicurezza delle persone?

Il perno attorno cui ruota il disegno di legge è proprio questo, sottintendendo l’inefficacia della Legge 180 e omettendo invece che non è essa a “non funzionare”, ma semmai la sua parziale applicazione. Essa prevede, oltre all’organizzazione dei servizi di salute mentale come li conosciamo oggi, una costante formazione del personale orientata in direzione contraria all’utilizzo di misure che limitino la libertà individuale, i diritti e la dignità delle persone.

Ma ciò comporta un processo culturale profondo: la sofferenza psichica è un aspetto della vita di ciascuno di noi e non è confinabile nelle maglie strette, rigide e disumane dell’illusione di controllo, attraverso parole che chiudono la porta alla persona riducendola solo a malattia.

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