Lo stacco di testa sopra Tarcisio Burgnich con il braccio inutilmente proteso verso l’alto. La finta, senza toccare il pallone, su Mazurkievicz per il quasi-gol più bello della storia del gioco. La mitologia della maglia numero 10 che inizia dopo la sua discesa in campo allo stadio Råsunda di Stoccolma ai Mondiali del 1958. La rovesciata del pareggio in Fuga per la vittoria.

Racconti, filmati in bianco e nero che magicamente si trasformano a colori, immagini che eternizzano i ricordi. Possono essere centinaia, migliaia e ognuno ha la sua, di istantanea, quando parliamo di Pelé.

Un uomo che è stato il calcio, e forse anche di più

Edson Arantes do Nascimento per oltre cinquant’anni è stato parte fondamentale del sistema linfatico del Brasile. In un paese dove il calcio rappresenta il massimo simbolo di unità nazionale, la sua traiettoria ha inciso sull’anima carioca come nessun presidente è mai riuscito a fare, tanto che numerosi studiosi sono concordi nell’affermare che proprio il suo impatto durante il mondiale svedese contribuì a dare piena “accettazione” ai neri all’interno della società brasiliana.

Un giovane Pelé

Il 19 novembre 1969, giorno del secondo allunaggio, Pelé segna su rigore il millesimo gol della sua carriera. Il giorno dopo i quotidiani di Rio e San Paolo escono con due notizie appaiate in prima pagina: «Luna già vista. Pelé, mai visto». Il bello è che, poi, il calcolo risulterà pure sbagliato. Il gol numero 1.000 l’aveva segnato già da qualche settimana.

Errori ed esagerazioni che solo gli innamorati si possono permettere. Allora capita che, di uno dei gol più belli di Pelè, non esistano immagini. Ma non perché non ci fosse la tv, no, quella registra tutto. Solo che, quando vanno a cercare il filmato, lo trovano manomesso. Dalla pellicola è stata sottratta la frazione con la sua rete e sostituita con un’altra azione di gioco. Qualcuno ha voluto solo per sé tutta quella bellezza.

La storia di Pelé è così, nasce profondamente brasiliana e, poi, diventa di tutti.

Il primo calciatore globale

Il primo a farsi brand. Tutto senza i mezzi della civiltà iperconnessa di oggi, ma con solamente il 30% di immagini disponibili sulla sua carriera. Il resto lo fanno le narrazioni dei telecronisti-poeti, i ricordi di chi era allo stadio, dei compagni e pure degli avversari. Una mezcla di cronaca, fede e fantasia che attraversa gli oceani.

Arriva fino in Africa, quella sì, terra di miti e leggende inestricabili. Solo qui ci si poteva contendere la paternità e la veridicità di due avvenimenti collegati alla tournée che Pelè fece, assieme al suo Santos, sul finire degli anni ‘60. C’è chi dice che per vederlo giocare si sia fermata la guerra civile nigeriana. Altri, invece, sostengono che a fermarsi fu lo scontro tra Congo e Zaire, col Santos costretto a giocare una partita a Kinshasa e una a Brazzaville. Nessuno voleva perdersi lo spettacolo.

Un’inchiesta degli anni ‘70 rivela che il marchio Pelè, nel mondo, è più conosciuto della Coca Cola. Ecco perché quella di O Rei è una figura che non puoi raccontare solo con i numeri o con i Mondiali vinti. Che trascende i limiti di un campo da calcio, della geografia e dello sport in generale, diventando icona del Novecento. Uno che è stato Jordan prima di Jordan, Alì prima di Alì.

Quando voli così in alto qualcosa, inevitabilmente, devi lasciarlo a terra. Perciò se ad un brasiliano che oscilla tra i 70 e gli 80 chiedete chi vi ha scaldato maggiormente il cuore, probabilmente vi risponderà Garrincha. Perché Pelé appartiene ormai alla cultura mondiale, Manè è rimasto il simbolo di chi affronta solo il momento per sé stesso. Pelé significa riscatto, potere, vittoria. Garrincha è alegria do povo, un dribblig dopo l’altro, una cachaça dopo l’altra.

Nel cuore dei brasiliani quello per Pelé è stato un amore maturo, razionale. Di chi ti ha preso per mano e ti ha condotto sul tetto del mondo, senza inciampare nelle buche della vita.

Così titolava ieri O Globo

Si è rotto lo specchio in cui ci vedevamo primi nel mondo“. Aprivano così i telegiornali brasiliani il 1° maggio del ’94, il giorno in cui morì Senna. Ecco, forse solo Ayrton ha avuto sul Brasile lo stesso impatto di Pelè.

Senna però se n’è andato di colpo, mozzando il fiato a mezzo mondo. Di lui ci resta il viso giovane, gli occhi rivolti al futuro in un’immagine che ferma il tempo. Pelè invece è invecchiato, fregandosene del fatto che gli eroi son tutti giovani e belli. Ci ha ricordato che anche i miti combattono le nostre stesse battaglie e, se si tratta di un tumore al colon, succede anche di vederli perdere.

Ma forse è proprio questa fine, così umana, per uno che in vita è stato una sorta di semidio sportivo, a darci la vera dimensione di O Rei. Un uomo che è stato ed è patrimonio di tutti, pure di chi il calcio nemmeno riesce a guardarlo. D’altronde, anche Pelé concordava con Nelson Rodrigues, scrittore e drammaturgo brasiliano.

«Vedere solo il pallone, è come non vedere niente».

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