Il sole e il caldo sono tornati al Lido, illuminando un azzurro intenso che si fonde con il blu profondo del mare e le delicate sfumature della laguna. In pochi metri, l’acqua si unisce a creare le isole, un paesaggio unico e suggestivo. La Mostra ha raggiunto il suo giro di boa: molti dei 22 film in concorso sono stati proiettati, ma non mancano sorprese e cambi di rotta.

La sposa dell’Agnello

The Testament of Ann Lee, diretto da Mona Fastvold e scritto insieme a Brady Corbet (The Brutalist), racconta la vera storia di Ann Lee, nata nel 1736 in Inghilterra. Dopo numerose tribolazioni e sofferenze, divenne una figura di leadership femminile all’interno di comunità religiose, prima nel suo paese e poi in America.

Era conosciuta da tutti come “Mother Ann”, madre delle cose spirituali e “sposa dell’Agnello”, considerandosi la metà femminile di Dio. Fin da piccola affermava di aver avuto visioni e rivelazioni. Dopo un matrimonio difficile e la tragica perdita di quattro bambini subito dopo la nascita, Ann, con l’aiuto di un piccolo gruppo di fedeli e del caro fratello William, decise, ispirata, di partire per gli Stati Uniti con la missione di trovare un luogo dove fondare una nuova chiesa.

Lo stile di Ann è unico: una ritualità intensa fatta di gesti potenti, canti, vicinanza, urla e danze. Il messaggio che unisce le persone è chiaro e diretto: uomini e donne devono vivere insieme in parità, ma sempre in modo assolutamente casto. Ogni tipo di relazione fisica o sessuale è vietata. L’astinenza è la scelta prioritaria, privilegiando rapporti veri, intimi, amicali e spirituali tra le persone, “l’unica via per arrivare a Dio”, afferma Ann.

Per il suo stile unico e deciso, la ritualità intensa e rumorosa, fuori dagli schemi del suo tempo, e soprattutto per il suo ruolo di donna leader carismatica religiosa, Ann Lee si trovò in una posizione inaccettabile per l’epoca. Le sue manifestazioni, come quelle rappresentate nel film, appaiono borderline sia sul piano psicologico che spirituale. Tuttavia, riuscì a fondare il movimento degli Shakers, un gruppo religioso che esprimeva la propria fede attraverso il canto e il movimento del corpo.

Il film appare strano e, a tratti, inquietante. L’elemento religioso viene quasi soffocato da un’atmosfera da setta, guidata in modo troppo personale da questa donna che, nonostante il grande coraggio e un’energia oltre i propri limiti, rischia di trascinare le persone in un’esperienza allucinante. Il tema religioso e spirituale resta sullo sfondo, così come la figura della protagonista nella chiesa dell’epoca.

L’aspetto più evidente è la persecuzione e la lenta, inesorabile estinzione degli Shakers. D’altronde, l’intento della regista era mettere in luce la determinazione di Ann e come sia riuscita a “trovare il suo posto nel mondo”. Tuttavia, come ha osservato un’amica dopo la visione, “la forza della figura femminile, che emerge in un periodo storico così difficile, viene messa in secondo piano rispetto all’assurdità della sua predicazione così come rappresentata nel film”.

La forza del film risiede nella musica, composta da Blumberg, unita alle danze coreografate da Hall e ai gesti espressivi. Viene definito una sorta di “musical cristiano”, anche se solo in parte. Ottima la performance di Amanda Seyfried.

Siamo tutti stranieri

Altro genere e stile: L’Étranger del regista francese François Ozon, adattamento del celebre romanzo di Albert Camus. Un film intenso e prolungato, interamente in un magnifico bianco e nero che coglie perfettamente l’essenza del racconto.

Algeri, 1938. Meursault è un modesto impiegato di trent’anni che riceve una notizia: “Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: ‘Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti’.” Questo non dice molto, forse è successo ieri. L’ospizio si trova a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l’autobus delle due per arrivare nel pomeriggio. Con l’incipit del romanzo di Camus, cerchiamo di capire alcune scelte cinematografiche di Ozon nel tentativo di trasporre sullo schermo un testo così nichilista come quello di Camus.

Il film è piuttosto lungo e, soprattutto nella prima parte, trasmette attraverso l’atteggiamento di Meursault (interpretato magistralmente da Benjamin Voisin) una profonda sensazione di noia ancestrale unita a un’apparente indifferenza, visibile sia nella scena del funerale sia nell’incontro con la bella e dolce Marie Cardona (Rebecca Marder). Anche i momenti con l’anziano burbero vicino e il suo cane, così come la strana amicizia con il volgare Raymond Sintes, sono fondamentali per comprendere meglio ciò che si cela nell’animo del protagonista.

Il film si trasforma poi in un dramma, in cui l’uccisione dell’arabo e l’arresto di Meursault emergono come momenti cruciali che conferiscono un nuovo significato alla narrazione. In carcere, arriva un sacerdote e il loro dialogo è intenso e diretto; a un certo punto diventa duro, quasi violento. La rabbia di Meursault rompe la sua apparente freddezza, rivelando la sua totale distanza da qualsiasi visione anche solo minimamente spirituale. Come diceva Camus nel 1942: “Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”.

È difficile stabilire se l’adattamento di Ozon abbia centrato l’obiettivo, ma il dibattito finale in qualche modo ne valorizza il risultato. Più che richiamare la prova di Visconti, lo stile evoca alcune scene dei film di Ingmar Bergman, incluso l’uso del bianco e nero. In conferenza stampa, Ozon sottolinea: “Mi sono concesso delle libertà nel rappresentare il dibattito interiore, un confronto tra Dio e il mondo, sfruttando il potere evocativo della letteratura”.

Non ci sono altre soluzioni

Nella rivista Ciak, che ogni giorno troviamo in ogni angolo delle sale, viene proposto uno specchietto quotidiano sul gradimento dei film in concorso, corredato da una votazione. Fino ad oggi, uno dei film più apprezzati è “No Other Choice” di Park Chan-Wook, un’opera che il regista definisce “il progetto di una vita”. Anche questo film è un riadattamento del romanzo di E. WestlakeThe Ax“, già portato sul grande schermo nel 2005 da Costa-Gavras.

Man-su (Lee Byung-hun) lavora in una fabbrica di carta ed è un tecnico eccellente. Ha una famiglia solida: una moglie amorevole, un figlio diligente, una figlia che suona il pianoforte ma non parla, una casa che sta finalmente riuscendo a comprare e due cani. Insomma, una vita serena. Ma all’improvviso tutto cambia: viene licenziato e il suo mondo crolla. Disperato, Man-su cerca lavoro ovunque; quando finalmente ne trova uno, scopre che per essere assunto deve eliminare i concorrenti. E lo fa davvero.

Il film presenta uno stile avvincente; Park Chan-wook è uno dei registi contemporanei più innovativi e influenti. Insieme a Bong Joon-ho (Parasite), è considerato uno dei pilastri della Korean New Wave.

Park Chan in questo film offre una riflessione profonda sul presente, sul valore dell’identità e sulla pericolosa catena del consumo. Esplora la fragile linea tra sopravvivenza e autodistruzione attraverso un racconto crudele e implacabile, caratterizzato da toni grotteschi, caricaturali e dissacranti. La violenza esplicita sembra voler autodenunciarsi, aprendo la strada a una possibile liberazione.

Il regista sudcoreano esplora da tempo temi legati alla psiche, alle pulsioni oscure e ai tabù, nella continua ricerca di una giustizia personale che spesso risulta amara e inappagante. Con una ferocia speculativa di grande impatto, i suoi personaggi sono consumati dall’ossessione della vendetta, come evidenziato nella Trilogia della Vendetta.

Il suo stile, pur molto diverso, richiama in qualche modo Kubrick. La violenza esplicita, mostrata ed esercitata, talvolta persino splatterizzata come in Tarantino, può davvero essere catartica? Può la giustizia fai-da-te liberare la rabbia generata dal mondo consumista odierno? Certo, non è questa l’intenzione del regista, ma le scene restano impresse nell’immaginario collettivo. La possibilità di cambiamento passa anche attraverso un’inversione di rotta nel modo di fare cinema, perché a catturare maggiormente l’attenzione è la violenza e la vendetta, più che la logica del perdono. Anche se l’obiettivo è far ridere per l’assurdità delle azioni, la violenza esercitata rimane sempre ben visibile nel film.

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