Ci risiamo. Anche quest’anno si è verificato lo strano fenomeno del rifiuto da parte di alcuni studenti di sostenere la prova orale all’esame di stato. Come era facile prevedere la reazione del mondo adulto è stata essenzialmente di due tipi: da un lato ci sono i sostenitori del rigore, che criticano il comportamento dei giovani, accusandoli di essere o pretenziosi e arroganti o furbetti che vogliono cavarsela senza avere studiato. Dall’altro troviamo quanti li giustificano e in certa misura enfatizzano la loro scelta, facendone i protagonisti di una nuova onda mediatica, in quanto eredi di uno spirito di contestazione che sembrava essere sparito dal mondo giovanile contemporaneo.

C’è però anche una terza posizione, nella quale mi riconosco, che da un lato sottolinea l’irritualità e l’inopportunità del gesto, ma dall’altro è ben consapevole “dall’interno” che prima o poi questa forma di protesta si sarebbe manifestata. Ripeto qui quanto ho già detto ad altri organi di informazione. L’esame ha una dimensione “liturgica”, così rigorosa, da essere di fatto una macchina rigida, che, tutta calibrata sugli aspetti quantitativi e numerici, considerati esaustivi della corretta espressione valutativa delle prove, lascia ben poco spazio alla dimensione qualitativa, relazionale, educativa dell’esame.

In sostanza questi ragazzi, con motivazioni e comportamenti diversi, vogliono dirci che è stata costruita una serie di gabbie protettive nelle quali non tanto si sentono sicuri, ma si considerano prigionieri. Per restare in metafora: quando si scende nelle profondità di mari infestati dai pescecani, la gabbia ci protegge dagli attacchi delle specie più feroci, ma nello stesso tempo ci limita nella possibilità di muoverci liberamente. Questi ragazzi sembrano dirci che le acque non sono infestate da squali e che queste gabbie sono inutili.

La provocazione è forte. Facciamo perciò un passo indietro e cerchiamo di capire come si è arrivati a questa imprevedibile situazione. Infatti, mai e poi mai in passato si sarebbe pensato che qualche studente arrivasse a non voler sostenere la prova orale. Effettivamen­te non c’è scritto nella periodica Ordinanza Ministeriale e tanto meno nel Decreto Legisla­tivo 62/2017, che regolano l’esame di stato del secondo ciclo, che l’esame è valido se e solo se sono state sostenute tutte le prove. Le ragazze del Convitto “Foscarini” di Venezia che lo scorso anno hanno dato l’avvio a questa originale forma di protesta, si sono effettiva­mente fondate per prime su questo principio. E, se devo dire, sono patetiche le posizioni di quanti accusano i ragazzi di essere dei furbetti. La norma non vieta quel comportamento, quindi non si tratta di astuzia, ma di attenta e approfondita conoscenza giuridica delle disposizioni e della concreta organizzazione dell’esame.

Orbene vediamo come funziona il processo valutativo e quali sono gli elementi che portano alla definizione del voto finale:

  1. Innanzi tutto va considerato il cosiddetto Credito Scolastico, che consiste nella somma dei punti acquisiti da ogni studente, in base alla media dei voti ottenuti allo scrutinio finale, in terza, quarta e quinta. Ci sono specifiche tabelle che definiscono le quote da assegnare agli studenti interni, e agli esterni (ovvero privatisti, che spesso si vengono a trovare nelle più disparate situazioni). Questo credito al massi­mo è di 40 punti e costituisce il 40% della valutazione finale, espressa, appunto in centesimi;
  2. il voto della prima prova scritta, per tutti una prova di italiano, che può essere al massimo di 20 punti;
  3. il voto della seconda prova scritta che verte in una o più delle cosiddette discipline caratte­rizzanti, definite da una specifica tabella ministeriale (greco e/o latino al classico, una o due lingue straniere al linguistico, matematica e/o fisica allo scientifico etc.) che pure può essere al massimo di 20 punti e quindi gli scritti costituiscono al massimo un altro 40%;
  4. la prova orale, la cui configurazione negli anni ha assunto forme sempre più complesse e diverse, che aggiunge l’ultimo 20% alla totalità del punteggio.
  5. viene promosso lo studente che ottiene almeno 60 punti su 100.

È evidente che in questo quadro normativo un credito complessivo di 32 (indicativo di un percorso di livello medio) sommato all’esito di prima prova di 15 (in decimi 7,5) e di seconda prova di 13 (in decimi 6,5) consente di raggiungere il fatidico 60 già prima dell’orale. Si tenga presente però che, sulla base delle informazioni giornalistiche, alcuni dei ragazzi che hanno scelto di non rispondere all’orale avevano in genere già un credito piuttosto alto, se non massimo, indicativo di una carriera ottima o persino brillante e agli scritti avevano ottenuto un punteggio tale da arrivare probabilmente persino oltre 60. Si sentivano, cioè, sicuri del fatto loro e sufficientemente capaci di esprimere un loro pensiero sulla struttura tecno-numerica dei punteggi.

Ed è proprio questo il punto nodale che deve farci riflettere. Al momento non abbiamo informazioni dettagliate sulle diverse situazioni, ma il messaggio che sembra emergere dal comune comportamento è che vi sia una sfasatura fra il credito scolastico e la prova d’esame. Eppure, dobbiamo ricordarlo, il credito scolastico, il cosiddetto Documento del 15 Maggio e tutte le indicazioni della annuale Ordinanza sono stati pensati e voluti per controbilanciare una possibile posizione negativa conseguente ad atteggiamenti fiscali, rigidi o in ogni caso incoerenti con le metodologie e lo stile relazionale del percorso scolastico precedente.

Foto da Unsplash di Kimberly Farmer

Una breve digressione: il mito della valutazione oggettiva, in certa misura finalizzata a sottrarre i candidati a quello che veniva considerato l’odioso arbitrio selezionatore delle commissioni composte da soli commissari esterni, modificate per bilanciamento con l’introduzione dei commissari interni e con l’introduzione del credito scolastico, è, in certa misura, simmetrico e antitetico, ma paradossalmente coerente, con l’idea che si possano sostituire i docenti con i sistemi elettronici e automatici. L’idea giustizialista colorata di ma­ternalismo, tipica di certa sinistra pedagogica parecchio attiva dagli anni Settanta in poi, ha finito per andare a braccetto con l’ipotesi comportamen­tista di una visione capitalistico conservatrice, che considera sempre eccesive le spese per l’istruzione e spera prima  o poi di liberarsi degli insegnanti, affidando a intelligenze digitali la trasmissione del sapere.

E questo è l’altro nodo: la scuola vive di relazioni e senza relazioni serie non è più scuola. L’affermazione dell’Art. 1.2  del D. Lgs. 122/2009 “La valutazione è espressione dell’autono­mia professionale propria della funzione docente, nella sua dimensione sia individuale che collegiale, nonché dell’auto­nomia didattica delle istituzioni scolastiche” ha un che di paradossale, dopo anni di impegno indefesso dell’amministrazione scolastica nell’allonta­nare, proprio con gli interventi sopra citati, sempre di più i docenti dal rapporto con gli studenti e nel privarli della loro credibilità. E dunque che dire? E soprattutto che fare? Come ho già avuto modo di dire in tante situazioni sono evidenti due cose.

La prima è che questo esame, pur con tutti gli aggiustamenti, le variazioni e correzioni introdotte nei decenni scorsi, è rimasto nello spirito ancora quello concepito all’inizio del secolo scorso da Giovanni Gentile. In quell’era geo-culturale la scuola rappresentava lo Stato e le sue valutazioni erano indiscutibili. I professori delle superiori erano un corpus compatto, fondavano il loro sapere su un’enciclopedia condivisa con l’università e la divaricazione fra masse ignoranti (l’Italia era per il 95% contadina e per il 50% analfabeta) ed élites economico-culturali era immensa. Superare l’esame significava entrare in quelle élites.

La seconda è che la scuola era solo per pochi e che gli esami, contrariamente a quello che si possa pensare oggi, erano i soli “pioli” di una ripidissima scala, che pure era a disposi­zione delle “migliori intelligenze”, necessarie all’Italia, a quella giovane nazione, nata solo da qualche decennio, che doveva selezio­nare i protagonisti della sua energia economico-culturale, sulla quale poi mise il cappello il fascismo. Si ricordi che la riforma Gentile era nata in una prospettiva liberale, fra l’altro molto contestata e legittimata autoritativamente dal regime. Ma gli esami erano “paradossalmente” una forma di democrazia, considerato il fatto che erano il solo mezzo con il quale i “migliori” delle classi umili potevano uscire dalla loro condizione, in quanto naturalmente dotati di “intelligenza e resistenza alla fatica intellettuale”. Il ruolo della Chiesa cattolica in tal senso fu determinante.

Foto da Pexels

Oggi in una situazione in cui: le “agenzie culturali e formative” sono innumerevoli e a portata di tasca grazie agli smartphone; il livello socio-economico-culturale ha cambiato radical­mente la posizione delle masse rispetto alle istituzioni; il sapere universitario è frastagliato, contraddittorio e disomogeneo; la natura totalizzante del sistema scolastico assorbe tutti, dico tutti, i nati dai sei (possiamo dire anche dai  tre) ai diciannove anni del territorio: in questa situazione, dunque, è ben difficile che quel modello di scuola e quel tipo di esame possano funzionare ancora.

In questo senso, dunque, mi pare possa essere interpretato il messaggio di questi ragazzi: la scuola quantitativa, basata su masse di dati e nozioni, fondata su meccanismi valutativi considerati  “oggettivi” come i test di vario tipo e forma; ossessivamente caratterizzata dal­l’attenzione agli aspetti aritmetici  del punteggio ha perso la sua credibilità, al di là delle buo­ne intenzioni e dei correttivi introdotti “nell’interesse legittimo” degli studenti: tutti rimedi che hanno finito per narcotizzare il malato senza guarirlo.

I compor­ta­menti a cui abbiamo assistito sono dunque sintomi e in quanto tali non vanno trascurati o minimizzati. In un prossimo articolo vorrei entrare più in profondità e cercare di capire come tamponare questo inizio di una pericolosa deriva. Si tratterebbe comunque di un rimedio temporaneo in attesa di ben più radicali interventi. Sarà in grado il mondo adulto di assumersi finalmente una responsabilità seria verso i propri figli? Basterebbe il costo di un caccia e di qualche missile per iniziare un cammino difficile ma ormai ineludibile.

Se non ora, quando?

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