C’è un momento, nel cuore del concerto di Sting a Villa Manin, in cui tutto si ferma per un attimo. Il tempo sembra sospeso tra le note arpeggiate di Mad About You e il silenzio attento del pubblico, quasi a voler trattenere il respiro. È lì che si capisce il senso del suo “3.0 Tour”: una scelta di sottrazione, di essenzialità, di ritorno all’osso della musica. E, soprattutto, della sua musica.

Siamo a Codroipo, nel cuore pulsante del Friuli, in una location suggestiva e incantevole come Villa Manin che da sola basterebbe a giustificare una serata davvero speciale e indimenticabile. Ma Sting — al secolo Gordon Matthew Sumner — fa molto di più: riesce a trasformare un parco monumentale, ricco di storia e fascino, in un autentico tempio sonoro, creando un’atmosfera magica e coinvolgente. È accompagnato unicamente dalla chitarra storica di Dominic Miller, il suo fedele compagno musicale da una vita, e dalla batteria calibrata ed espressiva di Chris Maas, già noto per la sua collaborazione con i Mumford & Sons, da poco visti all’Arena di Verona.

Tre strumenti essenziali, tre musicisti di grande talento, un suono pieno, vibrante e vivo che riempie ogni angolo dello spazio. Dando vita, di fronte a oltre diecimila persone, a un magistrale concerto –  organizzato in collaborazione con FVG Music Live e VignaPR – doppiamente atteso, visto anche l’annullamento di pochi giorni prima a Bassano del Grappa (Vicenza) a causa del maltempo.

Un trio che suona come un’orchestra

La formula del “power trio” non è affatto una novità per chi conosce bene il repertorio dei Police, e proprio da quell’ampio patrimonio Sting attinge con grande entusiasmo e decisione, come era del tutto lecito aspettarsi da un artista della sua caratura e esperienza. Tra i brani scelti troviamo classici intramontabili come Every Little Thing She Does Is Magic, Walking on the Moon, So Lonely, King of Pain, e Can’t Stand Losing You, quest’ultimo arricchito da una digressione musicale su Synchronicity II, oltre alla leggendaria Roxanne, che include il consueto momento di dialogo con il pubblico a metà canzone, capace di emozionare ogni volta.

Tuttavia, il vero punto di forza di questo spettacolo, forse in modo sorprendente e paradossale, risiede proprio nei pezzi solisti, che vengono riarrangiati con un gusto raffinato, una creatività vivace e una libertà espressiva davvero notevole. Da Englishman in New York a Desert Rose, passando per una reinterpretazione di Shape of My Heart che si avvicina quasi al mondo del jazz, ogni brano offre una prospettiva completamente nuova e originale, arricchendo profondamente l’esperienza musicale complessiva e mettendo in luce la versatilità e il talento straordinario di Sting in modo ancora più evidente e coinvolgente.

È proprio in questo momento che il trio mostra il massimo delle sue capacità espressive. Gli arrangiamenti si trasformano continuamente, si espandono, si frantumano e poi si riassemblano in modi inaspettati. Basso, chitarra e batteria entrano in un dialogo intenso, si provocano a vicenda, si rincorrono creando un gioco sonoro avvincente.

Talvolta è il groove pulsante a dominare e a trascinare l’ascoltatore, come accade in pezzi come Never Coming Home e Heavy Cloud No Rain; in altre occasioni, invece, è la melodia limpida e cristallina a prendere il centro della scena, come accade in Fields of Gold o nella delicata Fragile, brano con cui si conclude la serata in un’atmosfera intima e suadente, quasi accarezzando le dita degli spettatori.

Una voce che regge

Alla soglia dei 74 anni, che compirà nel prossimo mese di ottobre, Sting non possiede più l’estensione vocale che caratterizzava i suoi tempi migliori, ma la sua voce è ancora presente e ben riconoscibile. Quando è necessario, si affida all’esperienza maturata nel corso degli anni e alla ricchezza timbrica che ha saputo sviluppare con il passare del tempo. Evita qualsiasi virtuosismo fine a se stesso, prediligendo invece coerenza e un profondo rispetto per le canzoni che interpreta. E, cosa sorprendente, mostra una verve insolitamente loquace: racconta aneddoti divertenti, introduce i brani con un’ironia sottile e scherza amabilmente con il pubblico. È evidente che si sta divertendo molto, e questa sua allegria contagia e coinvolge anche gli spettatori, rendendo l’esperienza ancora più piacevole per tutti.

Il concerto ha inizio alle 21 in punto con l’immancabile Message in a Bottle e si conclude un’ora e cinquanta minuti dopo con la toccante Fragile, eseguita in controluce. Nel mezzo si susseguono venti brani che abbracciano e rappresentano tutte le diverse fasi della sua lunga e brillante carriera musicale. Sebbene la struttura generale dello spettacolo rimanga abbastanza stabile, è nella parte centrale che Sting ama sperimentare, modificando il repertorio da una serata all’altra.

A Codroipo, per esempio, ci ha regalato brani come A Thousand Years e Can’t Stand Losing You, due canzoni che non sempre fanno parte della scaletta ufficiale. Un chiaro segnale che, anche dopo decenni di carriera e successi, Sting mantiene vivo uno spirito di libertà e creatività, continuando a sorprendere e coinvolgere il pubblico con scelte imprevedibili.

Musica vera, senza sovrastrutture

In un’epoca in cui molti artisti si affidano sempre più a basi pre-registrate, a visual accattivanti e a scenografie spettacolari per mascherare eventuali lacune dal vivo, Sting sceglie invece una strada completamente diversa e per certi versi rivoluzionaria: tre strumenti, nessun effetto speciale, nessun artificio. Solo ed esclusivamente buona musica, suonata con maestria e passione, e questo si dimostra più che sufficiente.

Il “3.0 Tour” non è un semplice atto di nostalgia né un revival di tempi passati: è una potente dimostrazione di come, con talento autentico e rigore artistico, si possa ancora emozionare profondamente il pubblico con pochissimo. O meglio, con l’essenziale, quello vero e puro. Alla prossima, Matthew Gordon Sumner.

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