Ancora una volta, la potenza della poesia nata tra i capannoni del New Jersey ha dimostrato la sua forza inalterabile. L’attesa per l’evento, protrattasi per oltre un anno a causa di alcuni problemi di salute di Bruce Springsteen nella primavera 2024, si è concretizzata ieri sera, alle 19:55 precise, quando la E Street Band ha fatto il suo ingresso sul palco, seguita dal Boss che teneva per mano il redivivo Steve Van Zandt, dato inizialmente per assente vista la recentissima operazione d’urgenza subita per un attacco di appendicite. E invece… e invece il buon vecchio Little Steven (come viene soprannominato) non ha voluto mancare al primo appuntamento italiano, pur in evidenti difficoltà fisiche per tutta la serata.

Una generosità compensata dall’esplosione dello stadio, un’ondata di entusiasmo che fin dal primo istante ha unito ben quattro generazioni: nonni che sollevavano nipoti, genitori che issavano figli adolescenti, e ventenni che urlavano in prima fila. Un legame profondo, stretto nella stessa promessa fatta quarant’anni e nove giorni prima, il 21 giugno 1985, in occasione della prima apparizione milanese (e italiana) del Boss.

Per quasi tre ore, fino alle 22:50, lo spettacolo è stato un’esplosione di energia ininterrotta: 2 ore e 55 minuti senza pause, senza cambi di back-line, e senza nemmeno un cambio di maglietta. Springsteen è rimasto il fulcro di tutto, fradicio di sudore ma con un sorriso contagioso, ruggendo nel microfono e scendendo tra il pubblico per distribuire armoniche, plettri, abbracci e strette di mano.

Una scaletta costruita per lanciare un chiaro messaggio

La scaletta si è presentata come una vera e propria radiografia di un’America ferita, un viaggio attraverso cinquant’anni di storia operaia in musica. L’apertura con “No Surrender” e “My Love Will Not Let You Down” è stata un gancio al mento, seguita dal manifesto politico “Land of Hope and Dreams” già al terzo pezzo. Brani come “Death to My Hometown“, “Atlantic City”, “The River” (cantata dal Boss con le lacrime agli occhi) e “Youngstown” hanno ripercorso le difficoltà e le speranze della classe lavoratrice americana.

Il gran finale, con San Siro tradizionalmente illuminato a giorno, ha visto esplodere il trittico Born in the U.S.A., Born to Run e Bobby Jean, seguito dalla festa collettiva di Twist and Shout e dal commovente addio con Chimes of Freedom, un sentito omaggio al mentore Bob Dylan. Un meraviglioso inno alla libertà per tutti gli uomini e le donne della Terra, che ha rappresentato la degna conclusione di una performance dal profondo significato politico. Come forse mai prima d’ora.

Un messaggio ai potenti della terra

Un flusso ininterrotto di 31 brani, intervallato ogni tanto da un durissimo atto d’accusa contro l’“amministrazione corrotta, incompetente e traditrice” degli Stati Uniti. Un concerto, dunque, che è andato ben oltre il puro intrattenimento, trasformandosi in un vero e proprio atto d’accusa – in formato rock – contro i potenti della Terra. Anzi, contro uno in particolare. Prima di “Land of Hope and Dreams“, Springsteen ha ricordato l’America che ama e che, con i suoi pregi e difetti, racconta da oltre cinquant’anni nelle sue canzoni, “oggi in mano a un’amministrazione corrotta, incompetente e traditrice”, esortando il pubblico a “alzare la voce contro l’autoritarismo”.

Pochi minuti dopo, ha dedicato “Rainmaker” direttamente a Donald Trump, affermando che “chi semina paura raccoglierà tempesta”. Nell’introduzione gospel di “My City of Ruins“, ha citato lo scrittore americano James Baldwin per spronare “ognuno a prendersi il proprio pezzo di responsabilità”, perché in fondo, ha detto il Boss, “in questo mondo non c’è tutta l’umanità che si vorrebbe, ma ce n’è abbastanza”.

Le sue parole non sono mai state slogan improvvisati; da sempre, il Boss ha cantato i turni di fabbrica, i mutui opprimenti e le città in declino. Oggi, nel 2025, con la presidenza Trump che destabilizza non solo i diritti civili negli USA ma anche gli equilibri internazionali, questo filo conduttore è tornato con forza, e il pubblico ha risposto con un boato che ha superato gli amplificatori, dimostrando una profonda sintonia con il messaggio.

Certamente, possiamo affermarlo senza esitazioni: la sua popolarità non deriva tanto dalla complessità delle progressioni armoniche – solide, ma non rivoluzionarie – quanto dalla sua capacità di raccontare il mondo dal punto di vista degli ultimi. I ragazzi di Thunder Road che sognano una Mustang, l’operaio di Badlands che desidera “uscire vivo da un mondo morto”. Ma non è tutto. Oggi più che mai, il “ragazzo” di Freehold, New Jersey, rappresenta un punto di riferimento per chi si oppone a un certo modo di fare politica, sempre più distante dalle necessità di coloro che, in fondo, sono i veri protagonisti delle sue canzoni.

Una poetica che non ha mai tradito se stessa, nonostante il successo globale conquistato, e proprio questa coerenza gli consente oggi di riempire San Siro e ogni altro stadio del mondo. Persone di ogni estrazione sociale – dai volti segnati dalla vita ai teenager che conoscono a memoria ogni strofa delle sue canzoni, dai membri delle classi privilegiate fino alla middle class – si riconoscono nella sua narrazione, capace di superare il tempo e le mode. Nessuno tra il pubblico sembrava chiedere una “canzone nuova”; tutti attendevano l’abbraccio collettivo che arriva puntuale quando lui grida: “Is there anybody alive out there?”.

L’inossidabile E-Street Band

La band di ferro che lo accompagna ha offerto una performance impeccabile: in particolare, Roy Bittan ha creato atmosfere pianistiche talvolta dissonanti e quasi cinematografiche, Max Weinberg alla batteria ha martellato con la potenza di un fabbro norvegese, e Jake Clemmons ha reso omaggio allo zio Clarence con fiati intensi e vibranti. Tuttavia, è stata l’intera band a dimostrare una straordinaria compattezza e la capacità di seguire il Boss in ogni dettaglio, interpretando con precisione ogni alzata di spalle, ogni sopracciglio sollevato, ogni occhiolino che Bruce Springsteen, come un autentico direttore d’orchestra, rivolgeva ai suoi compagni di viaggio durante tutta la performance.

L’unica vera crepa di una serata per il resto perfetta è stata l’acustica di San Siro: sugli spalti, in particolare, le chitarre tendevano a impastarsi e i rullanti rimbombavano. A volte era davvero difficile capire di che canzone si trattasse. Una pena, questa, peraltro nota a chiunque abbia suonato nel vecchio Meazza, ma che comunque non ha mai allontanato nessuno dal catino milanese. D’altronde il coro di 80.000 persone ha funzionato da equalizzatore emotivo, un’esperienza che è praticamente impossibile da replicare altrove.

Un addio? Forse no

Bruce Springsteen ha dato tutto se stesso e non ha risparmiato una sola goccia di energia e sudore per regalare al suo pubblico una carica che rimarrà nella memoria di tanti. Il “Land of Hope and Dreams Tour” replicherà dopodomani, giovedì 3 luglio, di nuovo a San Siro, stesso orario, con lo stesso richiamo a tenere la schiena dritta. Se l’America “sopravviverà a Trump”, come Springsteen promette, lo farà anche grazie a notti come questa, dove tre ore di rock si trasformano in un manifesto civico in cui ogni singola voce è chiamata a cantare, testimoniare e resistere.

Forse, chissà, non lo rivedremo più dalle nostre parti. Quando, tempo fa, annunciò il tour, lo presentò come l’ultimo giro del mondo, spiegando che avrebbe dedicato il resto della carriera alle esibizioni live negli Stati Uniti, la sua terra natale. Tuttavia, il nuovo corso politico del Paese, la necessità di dare una scossa al mondo e il profondo desiderio di fare qualcosa di significativo per i fan e per gli ultimi, di cui è sempre stato voce, ci spingono a sperare che non sia davvero finita qui. Che il Boss, finché avrà energia, continuerà a portare la sua musica e le sue parole in ogni angolo del pianeta. Per continuare a sperare. Per continuare a redimerci. Per continuare a sognare, insieme.

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