“Nella società dell’abbondanza e produttivistica, o c’è abbondanza o c’è fame”. Questa citazione di Franco Basaglia e Franca Ongaro riassume con precisione ciò che accade quando mancano misure assistenziali adeguate per sostenere chi si trova in difficoltà. In assenza di sistemi di accoglienza solidi, chi esce dalla legalità per disperazione non trova strumenti per rientrarvi, e finisce escluso, marginalizzato.

Nella società del benessere, chi è povero, fragile, psichicamente instabile viene nascosto agli occhi dei più, in nome del decoro e della tranquillità collettiva. Il risultato è una rete di carceri sovraffollate, Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) fuori controllo, persone espulse dalle città senza possibilità di difendersi.

Cartelli stradali per raccontare l’esclusione

«Quest’anno abbiamo deciso di affidarci alla segnaletica stradale per parlare di esclusione sociale. Alcune parole d’ordine che descrivono la vita dei migranti sono “soste obbligate”, “svolte obbligate”», spiega Edoardo Garonzi, presidente di One Bridge To-, aprendo il primo incontro della seconda settimana del Festival.

«La scorsa settimana abbiamo parlato di esclusione sociale legata alla mancanza di residenza e cittadinanza, con il cartello “eccetto i residenti”. Ora affrontiamo il carcere come forma di detenzione sociale: una sosta obbligata».

Ospiti dell’incontro al Community Center erano Luigi Mastrodonato, autore del podcast Tredici sulle morti in carcere, e Isabella De Silvestro, autrice di Gattabuia, che racconta la vita dietro le sbarre dal punto di vista delle persone detenute. Entrambi giornalisti freelance, collaborano con testate come Internazionale, Domani e Il Post, e si occupano da anni delle contraddizioni del sistema carcerario italiano.

Le carceri italiane non ospitano i “cattivi”

«Quando si raccontano storie di carcere, i profili che emergono sono quasi sempre gli stessi: persone con disturbi psichici, con passate o presenti dipendenze, o straniere che non riescono a stare a galla», spiega Mastrodonato. «Non troviamo boss mafiosi o assassini, ma persone ai margini, colpevoli di piccoli reati».

Un momento dell’incontro con Mastrodonato e De Silvestro. Foto di Anna Delaini

Un terzo della popolazione carceraria è tossicodipendente, il 30% è di origine straniera. Dati utilizzati spesso in chiave propagandistica. Il giornalista cita il caso di Shushan, giovane tunisino arrivato in Italia nel 2020 per lavorare nel turismo sul Lago di Garda. Assunto con regolare contratto, perde il lavoro per la chiusura del ristorante. Da lì inizia la discesa: lavori saltuari, poi in nero, la miseria, la droga, piccoli spacci, arresti brevi, fino a furti e infine disturbi psichici.

«La spirale che ha portato Shushan – come tanti altri – dalla stabilità al carcere, è il sintomo dell’assenza di uno Stato sociale. È la povertà che accomuna tutte queste storie», sottolinea Isabella De Silvestro. «Il carcere diventa una criminalizzazione della fame, in senso lato». La mancanza di accesso ai diritti minimi – casa, lavoro, salute – diventa un biglietto di sola andata verso il carcere, un CPR, o la morte.

CPR in Albania: il paradosso dell’esilio istituzionale

Il CPR in Albania, fortemente voluto dal governo italiano, rappresenta un paradosso. Situato fuori dai confini nazionali ma regolato da norme europee, consente di aggirare i controlli parlamentari. «Parlamentari che hanno cercato di visitarli raccontano di aver trovato persone che non sapevano nemmeno dove si trovassero», denuncia De Silvestro.

«Dopo un viaggio umiliante, senza informazioni, ti risvegli in Albania in una struttura nuova, costata 65 milioni di euro, senza telefono, senza assistenza legale, senza percezione del tempo». A completare l’assurdità, dentro al CPR è stato costruito anche un carcere: una punizione nella punizione per chi ha soltanto cercato di fuggire da guerra o miseria.

Eppure, nemmeno lo scopo ufficiale di questi luoghi – il rimpatrio – viene raggiunto: la maggior parte delle persone detenute proviene da paesi non considerati “sicuri” e dunque non rimpatriabili.

Dalla detenzione alla disperazione

La funzione rieducativa del carcere è ormai compromessa. Molti detenuti non sanno nemmeno come comportarsi per non ricadere nella spirale della detenzione. L’assenza di informazioni, la mancanza di un percorso di reinserimento, l’angoscia del “dopo” spingono alcuni al suicidio, persino a pochi giorni dalla fine della pena. «Io ho conosciuto una persona» racconta Mastrodonato «che, dopo due notti terribili in questura, aveva paura di tornarci anche solo per ritirare i propri documenti».

Nei CPR italiani la situazione non è migliore: pasti ammuffiti, business del “supermercato interno” dove i prezzi sono gonfiati apposta, gare d’appalto al ribasso. Anche il cibo diventa merce. Anche la vita.

Un altro momento dell’incontro. Foto di Anna Delaini

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