Il Mondiale (per club): a chi appartiene questo calcio?
Negli Stati Uniti ha preso il via un torneo ancora senz’anima, ma con saldissime motivazioni economiche.

Negli Stati Uniti ha preso il via un torneo ancora senz’anima, ma con saldissime motivazioni economiche.
Infine, ci siamo arrivati. Al termine di una stagione calcistica lunghissima, resa ancor più tortuosa dalla nuova formula della Champions League, è iniziato anche il Mondiale per Club. Da Miami a New York, le 32 (supposte) migliori squadre del pianeta sono pronte ad affrontarsi in un torneo ancora senz’anima, ma con saldissime motivazioni economiche.
Casualmente ho passato gli ultimi giorni a Madrid. Il luogo d’Europa che è, allo stesso tempo, più vicino e più lontano possibile dall’essenza del Mondiale per Club. La capitale spagnola è lo specchio di un pallone che, nei suoi numerosi protagonisti, viaggia a velocità molto diverse tra loro, rischiando di sfilacciarsi. Ma andiamo con calma, affrontando una cosa alla volta.
Il grande calcio torna, trentuno anni dopo USA ‘94, a far visita agli States. Ci arriva negli stessi giorni in cui le grandi metropoli a stelle e strisce sono squassate da una crisi sociale esplosa in tutta la sua drammaticità. Nulla di tutto questo, probabilmente, arriverà mai nemmeno vicino agli stadi e ai quartieri che ospiteranno club e match in programma. C’è da scommettere che nemmeno i network televisivi approfondiranno questioni extra-campo. I milioni di diritti TV in ballo sono un contrappeso di un certo livello.
Tra esattamente 12 mesi, poi, da quelle parti arriva la Coppa del Mondo per Nazioni (pensate, non potremmo più parlare di Mondiali senza rischiare di essere fraintesi) e i vertici dello sport USA e la stessa FIFA non possono rischiare di sbagliare la “prova generale” dell’appuntamento più importante in assoluto. Anestetizzare tutto ciò che può gettare un cattivo riflesso sul torneo è più che un mantra. Qatar docet.
Da cuore pulsante delle città e delle comunità che la vivono, ecco che lo stadio è pronto a trasformarsi nel Nonluogo per eccellenza. Uno spazio che perde ogni sua prerogativa identitaria, relazionale e storica. Completamente sottomesso alla fruizione di uno spettacolo scritto e impacchettato per essere trasmesso in mondovisione.
Rispetto al Mundial di Roberto Baggio e dei rigori di Pasadena, questo appuntamento ha anche perso lo spirito “evangelizzatore” dell’epoca. Il calcio, pur in crescita, non intaccherà la sacra triade dei principali sport che entrano nelle case degli americani. Per capirlo, basta dare un’occhiata alla mappa di distribuzione delle location designate. Mercati certi, con afflato internazionale, e, dal Midwest al Pacifico, nemmeno sfiorata l’enorme fetta delle Flyover Country.
La Gigantomachia, nella mitologia greca, è la lotta che i Giganti ingaggiarono contro gli Dei per raggiungere la vetta dell’Olimpo. Finendo sconfitti e cacciati sotto l’Etna. Nell’idea della FIFA il Mondiale per Club dovrebbe rappresentare qualcosa di simile. La rassegna in cui far scendere in campo tutto il meglio del calcio di club presente sui cinque continenti.
La realtà dice che negli Stati Uniti arrivano squadroni europei che, giocoforza, non possono essere al top, ad appena due o tre settimane dal termine delle rispettive stagioni. Più di qualcuno tra club, giocatori e allenatori ha storto il naso di fronte alla collocazione temporale del torneo, ma il mal di pancia è presto passato, dando una semplice occhiata agli introiti previsti.
Il montepremi complessivo è di 1 miliardo di dollari, distribuito tra club partecipanti e un fondo per un meccanismo di solidarietà che sarà dedicato al calcio per club in tutto il mondo. Il vincitore arriverà a guadagnare fino a 125 milioni di dollari, una vittoria nella fase a gironi vale 2 milioni, la qualificazione agli ottavi 7,5. Numeri che valgono bene anche una semplice comparsata.
Tra giganti e divinità del pallone, c’è spazio pure per qualche curiosità. Come il meccanismo che ha consentito la presenza del Red Bull Salisburgo. Oppure le formazioni statunitensi e sudamericane, forse le più attrezzate per togliersi qualche soddisfazione. Magari non proprio la vetta dell’Olimpo, ma almeno qualche raggio di sole. La condizione fisica sarà, comunque, il vero discriminante.
Al di là di chi arriverà sul podio, questo è un torneo che porta la firma di Gianni Infantino dall’inizio alla fine. E non perché la sua firma sia realmente incisa sul trofeo, ma perché rappresenta l’ennesima sfida che il presidentissimo della FIFA lancia e, al momento, vince con l’intero universo del pallone.
Dopo il Mondiale a 48 nazioni, fortissimimamente voluto, ecco un appuntamento in più, perfetto per occupare gli ultimi slot di programmazione calcistica lasciati liberi nell’arco di ogni quadriennio. Si gioca sempre. I “più forti” giocano sempre. In una dimensione infinita che, però, porta con sé già le prime possibili crepe.
Napoleone, che di megalomania se ne intendeva, ci ricorda che “dal sublime al ridicolo vi è appena un passo”. Quel passo, per Infantino, potrebbe stare nell’essere riuscito a mettere su un baraccone in grado di far impallidire l’idea stessa della Superlega, ed averlo offerto ad un pubblico dall’interesse quantomeno ondivago. Le grandi difficoltà a vendere i biglietti, anche solo del match di inaugurazione sono lì a dimostrarlo.
Per il primo atto del Mondiale, che ha visto scendere in campo l’Inter Miami di Messi e Suarez, a dicembre un biglietto costava circa 349 dollari. A gennaio si è scesi a 230, a maggio 110 e oggi ce ne sono voluti più o meno 55. Nonostante ciò, secondo The Athletic, fino a pochi giorni fa erano stati venduti meno di 20mila tagliandi, per uno stadio che ne può ospitare più del triplo. Però, hey, se sei uno studente della zona con 20 dollari ti portavi a casa un pacchetto di cinque biglietti.
Il Bonaparte, oltre che di grandi campagne vittoriose, ha fatto esperienza anche di tremende disfatte. E probabilmente avrebbe avuto pure lui dei dubbi sul fatto che, a Washington, possa interessare a qualcuno vedersi allo stadio Salisburgo – Al Hilal. Alla, statene certi, gli spalti in qualche maniera li riempiranno. Anche perché qui la FIFA è in secondo piano (il suo pacchetto l’ha già venduto), la palla passa agli americani. Che, sul mettere su uno show sportivo da mandare in mondovisione, hanno pochi rivali.
Inter e Juventus sono sbarcate oltreoceano a rappresentare il calcio italiano. La prima, arrivata a fine maggio col fiato corto, proverà a risollevare il morale dopo la storica debacle in finale di Champions, passare il turno e poi chissà. La seconda negli ultimi mesi ha cestinato mezza dirigenza e un intero progetto tecnico. Due dei tanti specchi su cui si riflette la situazione del nostro pallone.
Io me l’immagino, Gravina, sgranare il rosario nella speranza di notizie dagli Stati Uniti. Di qualsiasi notizia, buona o cattiva che sia, basta che sposti le luci dei riflettori dalla voragine tecnico-istituzionale nella quale stiamo sprofondando. Che il livello del nostro “sistema calcio” sia sceso di almeno due gradini dai fasti degli anni ‘80 e ‘90 è realtà accettata da tutti, ma questo non giustifica le continue falle che, giorno dopo giorno, affondano il vascello.
Un CT dimissionato mandato in conferenza ad annunciarlo e poi in campo. Il sostituto designato che si tira indietro. Giocatori liberi di maltrattare la maglia azzurra, giocando o rifiutandosi di farlo. Il caos playout e retrocessioni in Serie B. I fallimenti vari della serie C. Informazione sportiva che, per la maggior parte, si divide tra dozzinale, cafona e asservita al potere (il trattamento stampa riservato a Simone Inzaghi post addio all’Inter farebbe impallidire la Pravda). E ho preso in considerazione solo le ultime due settimane.
Come fai a chiedere a un bambino di appassionarsi a tutto questo, preferendolo ai rigori presidenziali. E, credetemi, non sono qui a rimestare nella retorica stantia del calcio che non è più dei tifosi, del troppo business e dei ragazzini che non giocano più per strada o negli oratori. Parliamoci chiaro: siamo semplicemente davanti a un’azienda che non funziona e, per la gran parte, incapace di autosostenersi. Senza una progettualità e alla rincorsa dei soldi che cadono dalle tasche dei nuovi padroni, arabi o americani perlopiù. Un giorno qualcuno alzerà la mano, ammetterà di non essere in grado e toglierà il disturbo. Quel giorno, però, non è oggi. Probabilmente neppure domani.
Dato quanto scritto finora, ha ancora senso parlare di “appartenenza” nel mondo del calcio? O meglio, chiedersi… a chi appartiene il calcio? Provo a dire la mia.
Madrid, dicevo. Puerta del Sol, la Gran Via, perfino scendendo giù a Lavapiés, non puoi girare lo sguardo senza imbatterti in una casacca del Real. Le divise di Bellingham e Mpabbè campeggiano negli store e sono l’acquisto più gettonato per migliaia di turisti in arrivo da chissà dove. Nessuno, dico nessuno, con l’interesse al Mondiale che stava per iniziare. La camiseta blanca vissuta alla stregua dei milioni di cappellini degli Yankees indossati in questi anni da persone che mai hanno visto una partita di baseball per intero. Il calcio, oggi, appartiene anche a loro.
Ad una ventina di minuti di metro dal cuore di Madrid, ci sta Vallecas. Ci sono i palazzoni tipici di un territorio cresciuto operaio. Trovate piccole botteghe con esercenti approdati da ogni parte del mondo, qualche bar, e c’è uno stadio. Ci gioca il Rayo Vallecano. Matagigantes, hanno dipinto qualche settimana fa i tifosi su uno dei muri di cinta del campo.
Da quello stadio scaturisce qualcosa di profondo, che innerva un quartiere-città con quasi 300mila abitanti. Un’energia che dagli spalti dei Bukaneros scende nelle strade. Colora pareti, giardini, scuole e centri di ascolto. È la forza della coerenza, di chi ha compreso le regole del gioco, ma ha deciso di non subirle passivamente. Di chi, anche contro il proprio presidente, ha scelto un’altra strada. E non si limita ad urlarlo durante le partite, ma realizza concretamente a un modello diverso.
La comunità rayista anima le piazze durante tutto l’anno. In questi giorni ha organizzato mostre, visite guidate, momenti di racconto e pure una corsa aperta a tutti. Tra le centinaia di magliette biancorosse c’erano bambini, ultras, famiglie, immigrati e anziani. “Non è lo spazio in sé – dice Jenny Holzer, ma dare alla gente la possibilità di unirsi. Fare le cose insieme, unirci, questo ci definisce”. A Vallecas l’hanno capito e, il loro calcio, gli appartiene davvero. L’anno prossimo li vedremo in Conference League.
Dopo aver girovagato tra mitologia greca, miserie (calcistiche) italiane e quartieri madrileni, siamo tornati negli Stati Uniti. E al Mondiale per Club appena iniziato. Sapete qual è, alla fine, la realtà? Che questo torneo lo guarderemo. Che io lo guarderò, almeno un po’. Perché, di fondo, c’è quell’utopia di vedere tutto il mondo affrontarsi su un campo di calcio. Immaginandoci, almeno lì, tutti alla pari. I grandi della FIFA lo sanno, e puntano anche su queste braci sopite per vincere lo scetticismo iniziale. La giostra, d’altronde, gira anche così.
L’importante è essere consapevoli. Sapere cosa stiamo guardando senza pretendere risposte che il calcio, oggi, non può dare. Teniamoci la curiosità di scoprire club e giocatori che, altrimenti, sarebbero rimasti fuori dai nostri radar. L’idea che un carneade del pallone possa sovvertire qualche pronostico. La speranza che qualcuno esca dallo spartito, in campo e fuori, ricordandoci che, mentre giochiamo, il mondo è in fiamme. Aggrappiamoci alle storie. A queste storie. Quanto ne abbiamo bisogno.
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