L’8 e il 9 giugno si vota per cinque referendum, di cui quattro sono dedicati al tema del lavoro. Lo scopo dei promotori è ripristinare alcuni diritti dei lavoratori che erano stati cancellati dal Jobs Act nel 2014, dall’allora governo presieduto da Matteo Renzi. Il Jobs Act si basava sul principio che una maggiore flessibilità del mercato del lavoro avrebbe favorito l’economia, incrementando occupazione, produttività e competitività del sistema Paese, con benefici anche per tutti i lavoratori.

La precarizzazione del lavoro non fa crescere l’economia

Tuttavia, questo approccio si è rivelato fuorviante. La facilitazione dei licenziamenti ha precarizzato il lavoro, ridotto tutele e salari, senza aumentare la produttività e impoverendo l’intero Paese. Questi effetti sono stati documentati dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio nel Rapporto sul lavoro in Italia, presentato il 30 aprile scorso, a dieci anni dall’introduzione del Jobs Act.

Un indicatore chiave della produttività del lavoro è il PIL per ora lavorata. Le statistiche mostrano che, mentre in altri Paesi europei questo parametro è aumentato, in Italia è rimasto stagnante, registrando addirittura un calo negli anni successivi al Jobs Act. Anche l’occupazione non ha mostrato miglioramenti significativi. Quando è aumentata, non è cresciuto proporzionalmente il numero di ore lavorate, segnalando una diffusione di lavori part-time e precari, come confermato dai dati Inps sui contratti di lavoro.

Dal 2008 al 2024, i salari reali medi in Italia sono diminuiti del 9%, mentre in Francia e Germania sono aumentati rispettivamente del 14% e del 9%. Questo calo è attribuibile alla precarizzazione del lavoro e al trasferimento dell’occupazione verso mansioni meno remunerate.

I bassi salari disincentivano gli investimenti

Inoltre, il taglio degli investimenti pubblici ha avuto un ruolo determinante. Come riportato dallo stesso rapporto della Fondazione Di Vittorio: «Tra il 2010 e il 2019, prima della pandemia, gli investimenti fissi lordi in Italia sono diminuiti in termini reali di 8 punti percentuali, mentre sono aumentati del 16% in Francia e del 20% in Germania».

La precarietà e i bassi salari disincentivano gli investimenti in ricerca e innovazione da parte degli imprenditori, rallentando la crescita economica. Ciò comporta minori entrate per lo Stato, con ripercussioni sui servizi pubblici e sui contributi pensionistici. In sintesi, precarietà e salari bassi si sono rivelati dannosi per l’economia italiana.

I quattro referendum sul lavoro offrono l’opportunità di ripristinare diritti conquistati con le lotte sindacali degli anni ’70 e sanciti nello Statuto dei Lavoratori, oltre a fornire un contributo positivo alla crescita dell’economia. Partecipare al voto e scegliere “Sì” dovrebbe essere una priorità per ogni lavoratore consapevole.

L’astensionismo come strategia politica della destra

Tuttavia, il raggiungimento del quorum del 50% degli aventi diritto, necessario per la validità del referendum, appare incerto. L’affluenza alle urne è in costante calo da anni, anche per le elezioni politiche, attestandosi ormai poco sopra il 50%. Nei referendum, una bassa partecipazione favorisce l’astensione come strategia politica per contrastare i promotori. Gli schieramenti di governo, che sostengono il “No”, incoraggiano infatti l’astensione, rendendo ancora più difficile il raggiungimento del quorum.

Le opposizioni risultano divise: le forze liberali, come quelle guidate da Italia Viva e Azione, sono per il “No”, mentre Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra e Partito Democratico sostengono il “Sì”. Tuttavia, il Partito Democratico presenta delle ambiguità: nel 2012, la riforma Fornero sul lavoro fu approvata anche con il voto dei parlamentari democratici. Inoltre, nel 2014 il Jobs Act fu proposto da Matteo Renzi, allora segretario del PD e presidente del Consiglio. Ancora oggi, all’interno del PD, alcuni esponenti di rilievo dichiarano di opporsi all’abrogazione del Jobs Act e di votare “No”.

Il significato politico di una alta affluenza alle urne

La valenza politica di questo referendum si giocherà tutta sull’affluenza alle urne. Una partecipazione inferiore al 50%, che renderebbe nulla la consultazione, significherebbe di fatto una vittoria per le destre al governo e per Matteo Renzi. Al contrario, un’affluenza superiore al 50% sarebbe un segnale positivo per l’opposizione di sinistra.

In definitiva, sarà probabilmente questa riflessione a motivare, o meno, molti cittadini a recarsi alle urne e a determinare l’esito del referendum. Solo un’alta affluenza rappresenterebbe il segnale di una democrazia ancora viva e partecipativa, capace di alimentare speranze per il futuro.

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