Con la sentenza n. 10 del 2024, i giudici della Corte costituzionale hanno dichiarato incostituzionale il divieto assoluto all’affettività in carcere tra persone detenute e partner.
C’è ancora molto da fare per rendere operativo questo diritto, ma intanto la Consulta ha indicato una svolta storica sulla questione della privazione della sfera affettiva e intima della popolazione carceraria.

I contatti con l’esterno

È indubbio che l’ingresso in prigione comporti un’uscita dalla quotidianità. Come segnalato da Antigone nel suo Diciannovesimo rapporto sulle condizioni di detenzione, le possibilità che i detenuti hanno per rimanere in contatto con i loro cari sono limitatissime: oltre alla corrispondenza postale ci sono le telefonate, una volta a settimana per i detenuti comuni (non più di due al mese per i detenuti a regime speciale) e della durata massima di dieci minuti, e i colloqui in presenza, al massimo sei al mese per i detenuti comuni, della durata di un’ora.
Relativamente ai colloqui, la riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 ha specificato che i locali destinati a questa attività dovrebbero favorire «ove possibile, una dimensione riservata». Ma si tratta di un principio che è rimasto sulla carta.
Oltre al ridotto tempo a disposizione, infatti, i colloqui hanno il limite di svolgersi in sale condivise con altre persone detenute che incontrano i familiari, dove non è garantita la riservatezza ed è impedito qualsiasi gesto affettuoso.
Mantenere le relazioni durante la detenzione è quindi molto complicato: non ci si vede quasi mai, ci si sente al telefono per pochi minuti al mese, e quando ci si incontra lo si fa in ambienti affollati e rumorosi.

Il controllo a vista

Ma la barriera più grossa al diritto all’affettività sta nel fatto che, in base alla legge sull’ordinamento penitenziario, i colloqui si devono svolgere sempre sotto il controllo a vista degli agenti di polizia penitenziaria, anche se questi ultimi non possono ascoltare le conversazioni.
Antigone sottolinea l’effetto inibitorio di tutto ciò: «lo sguardo incessante di un controllore, in qualunque momento del giorno, anche nei momenti fisiologicamente più intimi, senza intermittenza o pausa, annichilisce, ancor prima dell’intimità con un altro soggetto, quella con il proprio corpo».

Il riscorso alla Corte costituzionale

Il caso che ha portato alla decisione della Consulta nasce dal ricorso di E.R., detenuto presso la casa circondariale di Terni, che lamentava il divieto ricevuto dalla direzione del carcere a svolgere colloqui intimi e riservati con la compagna e la figlia minorenne.
Secondo il ricorrente, un colloquio intimo costituiva l’unico strumento per esercitare il proprio diritto a una serena relazione di coppia per vedersi assicurato a pieno il ruolo di genitore.

Il giudice di sorveglianza di Spoleto ha quindi sollevato questioni di legittimità costituzionale di fronte alla Consulta, ritenendo che il controllo a vista sui colloqui con il partner, quindi, implicherebbe per il detenuto un vero e proprio divieto di esercitare l’affettività in una dimensione riservata, con una conseguente astinenza forzata dai rapporti sessuali con il partner. In altre parole, una «violenza fisica e morale sulla persona».
Secondo il magistrato, l’impossibilità di coltivare in modo pieno le relazioni affettive potrebbe anche minare la tenuta dei legami familiari e la salute psicofisica della persona detenuta.

Il precedente caso e l’inerzia del Parlamento

La questione era già stata sottoposta al vaglio costituzionale nel 2012 dal magistrato di sorveglianza di Firenze.
«Si tratta di un problema che merita ogni attenzione da parte del legislatore», avevano concluso i giudici della Consulta, chiedendo al Parlamento di intervenire.
Parlamento che, più di dieci anni dopo, è ancora inadempiente: negli anni sono stati presentati vari progetti di legge alla Camera e al Senato, ma nessuno ha mai avuto seguito.
Tanto da spingere alcuni studiosi a parlare di «silente – ma indiscutibilmente consapevole – volontà del legislatore, tesa a impedire l’emersione del diritto».

Un divieto irragionevole

La Corte costituzionale ha dato ragione al giudice di Spoleto e ha dichiarato incostituzionale l’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il partner senza il controllo visivo da parte del personale di custodia, quando, in base al comportamento della persona detenuta in carcere, non esistono ragioni di sicurezza o di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, per chi ancora imputato, ragioni giudiziarie.

L’articolo in questione, nel prescrivere in modo assoluto e indiscriminato il controllo a vista sui colloqui, senza concedere alcun margine di discrezionalità ai giudici, anche in casi nei quali non vi sono ragioni di custodia tali da giustificarlo, provoca una compressione sproporzionata e un sacrificio irragionevole del diritto del detenuto di esprimere una normale affettività.
E questa circostanza, secondo la Corte, viola l’articolo 3 della Costituzione per la irragionevole compressione della dignità della persona.
Vi è inoltre un contrasto con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (a cui l’Italia aderisce), che afferma che il rispetto alla vita privata e familiare delle persone non può essere violato da un’autorità pubblica, a meno che non sia previsto dalla legge e sia necessario alla pubblica sicurezza.

Le parole della Consulta

«L’ordinamento giuridico», ha affermato la Corte, «tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società».

La soluzione non è il permesso premio

La Corte costituzionale ha anche spiegato come la questione dell’affettività del detenuto non può essere superata con il ricorso ai permessi premio, poiché non si può affidare l’esercizio di un diritto fondamentale alla logica “premiale” dei permessi.
Non si può, in altre parole, trattare la sessualità alla stregua di un beneficio.
Inoltre, tali permessi darebbero solamente una risposta parziale: essi sono subordinati a vari requisiti che, di fatto, li rendono concedibili solo a una piccola parte della popolazione carceraria (nel corso del 2022, secondo Antigone, i permessi premio sono stati riconosciuti a circa un decimo dei detenuti).

Un dibattito iniziato negli anni novanta

Di affettività e sessualità dentro le carceri italiane se parlava già nel 1999, quando l’allora direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), Alessandro Margara, propose di concedere alle persone detenute la possibilità di trascorrere con i propri familiari fino a ventiquattro ore consecutive in apposite unità abitative (si parlò di “mini-appartamenti”) collocate all’interno delle carceri e separate dagli ambienti dei colloqui.
La proposta, però, venne stralciata dal testo del nuovo regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario, perché il Consiglio di Stato diede parere negativo.
L’idea fu poi ripresa da varie commissioni ministeriali, dal Comitato Nazionale di Bioetica con un parere del 2013, e dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale del 2015 che proposero di introdurre il nuovo istituto dei “colloqui intimi”.

Le raccomandazioni degli organismi internazionali

Sul tema dell’affettività delle persone detenute sono intervenute varie raccomandazioni degli organismi internazionali.
La Raccomandazione n. 1340/1997 del Consiglio d’Europa, sugli effetti sociali e familiari della detenzione, ad esempio, invita gli Stati membri a «migliorare le condizioni previste per le visite da parte delle famiglie, in particolare mettendo a disposizione luoghi in cui i detenuti possano incontrare le famiglie da soli».

Uno scatto tratto dal progetto “Dante in carcere”, curato dalla compagnia teatrale Le Falìe alla casa circondariale di Montorio

Una successiva raccomandazione del 2006 richiede che «le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali», specificando altresì che, «ove possibile, devono essere autorizzate visite familiari prolungate», le quali «consentono ai detenuti di avere rapporti intimi con il proprio partner», posto che «le “visite coniugali” più brevi autorizzate a questo fine possono avere un effetto umiliante per entrambi i partner».
Anche la Raccomandazione del Parlamento europeo del 9 marzo 2004 menziona, tra i diritti da riconoscere ai detenuti, «il diritto ad una vita affettiva e sessuale prevedendo misure e luoghi appositi».

Gli effetti sulla persona

Non poter esprimere la propria affettività e la propria sessualità ha delle conseguenze negative sulla persona, come la scienza ha dimostrato da tempo.
All’inizio degli anni Novanta, nel carcere di Lione, il medico francese Daniel Gonin studiò gli effetti “patogeni” della detenzione: il blocco delle comunicazioni e il venir meno dei legami affettivi, aggiunti ad altri elementi di sofferenza tipici del carcere, producono patologie di varia natura, più o meno visibili: determinano profondi cambiamenti nell’identità della persona, tolgono risorse e producono una specie di desertificazione relazionale.
Questa privazione porta la persona detenuta a un processo di regressione e infantilizzazione: avendo una limitata libertà d’azione ed essendo sorvegliato a vista, chi è in carcere può essere vittima di disagi che sfociano anche nel desiderio morboso, nella fissazione maniacale o nell’autoerotismo praticato secondo modalità adolescenziali
In alcuni casi, l’annientamento della dimensione sessuale porta anche a forme di sessualità “compensative” (come la cosiddetta omosessualità “indotta”) o violente, che spesso determinano sopraffazioni e coazioni: una sessualità, quindi, che non è il risultato di una libera espressione, ma è legata a un processo di spersonalizzazione rassegnazione.

Rieducazione o afflizione?

Questa condizione è incompatibile con la finalità di reinserimento sociale della persona condannata prevista dalla Costituzione: se la detenzione distrugge queste relazioni familiari, chi esce dal carcere si ritrova ancora più povero e solo di quando ci era entrato.
Nonostante l’ordinamento penitenziario stabilisca che la perdita della libertà conseguente alla detenzione non deve compromettere alcun diritto fondamentale dell’essere umano, il carattere corporale della pena è ancora presente nelle carceri.
E l’eliminazione dell’affettività ne è un esempio: una pena accessoria alla pena detentiva, che colpisce indirettamente anche i partner delle persone detenute.

Le scelte degli altri Stati

L’Italia è uno dei pochi paesi in Europa a non garantire momenti di intimità all’interno degli spazi detentivi. La maggior parte degli Stati del Consiglio d’Europa (31 su 47) riconosce ai detenuti, in forme diverse e variabili, spazi di espressione dell’affettività, compresa la sessualità.
La sentenza della Corte costituzionale ha ricordato il caso dei parlatori familiari (“parloirs familiaux”) e le unità di vita familiare (“unités de vie familiale”), locali appositamente concepiti dall’ordinamento francese per lo svolgimento di visite di familiari adulti, senza sorveglianza continua e diretta, o le “visitas intimas” disciplinate dal regolamento penitenziario spagnolo e le visite di lunga durata ammesse dalla legislazione penitenziaria di molti Länder tedeschi.
In Croazia sono previsti fino a quattro colloqui al mese non sorvegliati con il partner, di quattro ore ciascuno, con il coniuge o il partner.
In Norvegia, Svezia, Danimarca e Paesi Bassi le carceri sono dotate piccoli appartamenti in cui poter restare per un’ora senza controllo.
La legge albanese concede al detenuto otto telefonate al mese e quattro colloqui mensili di breve durata, uno dei quali può essere prolungato fino a cinque ore per le persone detenute sposate.

Ora serve una legge

Per fare seguito alla propria sentenza, la Corte costituzionale ha auspicato un’«azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze».
Servirà quindi un intervento normativo per disciplinarne meglio condizioni, limiti e modalità delle visite, ma la strada è ormai segnata.
La Corte ha ricordato al Parlamento la durata dei colloqui intimi dovrà essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al partner un’espressione piena dell’affettività, e che le visite dovranno potersi svolgere in modo non sporadico al fine di preservare la stabilità della relazione.
I giudici della Consulta immaginano spazi lontani dallo sguardo della polizia penitenziaria e degli altri detenuti, e che riproducano un ambiente di tipo domestico (ad esempio, consentendo la preparazione e la consumazione dei pasti).

La sperimentazione a Padova

Dalla sentenza della Corte costituzionale hanno preso avvio discussioni e iniziative in tutta Italia. Le associazioni di volontariato che operano all’interno del carcere Due Palazzi di Padova hanno annunciato l’avvio della prima sperimentazione italiana per permettere incontri tra detenuti e i loro partner in stanze private, senza controlli.
Come riportato dal Corriere del Veneto, il direttore del Due Palazzi si sarebbe detto favorevole alla proposta.

Anche il capo del DAP, Giovanni Russo, in un’audizione alla Commissione Giustizia alla Camera, lo scorso 21 febbraio, ha confermato la volontà dell’amministrazione penitenziaria di dare piena a quanto deciso dalla Consulta. Sull’ipotesi di Padova, però, è arrivato l’altolà del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, che, parlando di “propaganda”, ha negato l’esistenza di alcuna autorizzazione specifica per a proposito delle “cosiddette stanze dell’amore” e annunciato un tavolo di lavoro per approfondire la questione.

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