Tokyo, oggi. Hirayama è un sessantenne giapponese che pulisce i bagni pubblici della città con grande attenzione ai dettagli e dedizione maniacale al suo lavoro. Ogni giorno segue la stessa routine: pulizia personale prima e dopo quella dei bagni altrui, dà da bere alle proprie piante, mangia un panino al parco all’ora di pranzo e legge un romanzo prima di andare a dormire. Giorno dopo giorno seguiamo il protagonista nelle sue giornate, scoprendo man mano qualcosa in più su di lui.

Questa è la sinossi dell’ultimo lavoro del cineasta tedesco Wim Wenders e che sta trovando giudizi discordanti fra il pubblico. Abbiamo allora chiesto ai nostri esperti di cinema quali sono i motivi per promuoverlo o bocciarlo. Questo è il risultato.

Perché sì – di Emanuele Antolini

Perfect days è un film fortemente soggettivo. Ciò che vediamo è perennemente filtrato secondo lo sguardo del protagonista Hirayama e, di riflesso, del regista Wim Wenders. Di conseguenza la costruzione di ogni aspetto di Perfect days segue la morale del loro sguardo, della loro idea di mondo. Il 4:3 del formato è su misura di Hirayama (il furgone minuscolo, la casa umile), la canzoni richiamano la giovinezza del protagonista e di Wenders (“Se non ci fosse stato il rock avrei fatto l’avvocato”), e l’ossessione per tutto quello che è analogico sono indice di chi è bloccato nel proprio tempo, come Quentin de L’urlo e il furore di William Faulkner (scrittore che Hirayama legge la sera prima di andare a dormire).

Che cosa resta quindi? Un film composto da giornate alla ricerca del “komorebi”, ovvero la luce del giorno che passa attraverso le foglie, dove il presente è indice di sofferenza perché non capito, figlio di traumi passati che possiamo solo intuire dalle espressioni del protagonista.

Apparentemente tutto semplice, per non dire banale, ma quella di Perfect days è una narrazione che nasconde un flusso di coscienza fatto di piccoli gesti e azioni che colgono le dinamiche sociali e culturali del nostro tempo. Una sorta di cinema trascendentale in perenne stasi spazio-temporale, indice di chi ha trovato – ed è rimasto bloccato – il proprio posto nel mondo. 

Voto: 4/5

Il trailer di Perfect days.

Perché no – di Corrado Benanzioli

Il film, nelle intenzioni inziali dell’amministrazione di Shibuya (una grande zona di Tokyo), sarebbe dovuto essere un documentario diretto da Wenders per promuovere l’utilizzo di 17 bagni pubblici disegnati da famosi architetti internazionali; il regista, notoriamente amante del Giappone e del Cinema giapponese, ha rilanciato proponendo la realizzazione di un vero e proprio film. Quindi co-sceneggia con Takuma Takasaki, ingaggia un buon attore espressivo (deve esserlo, perché dirà solo due parole) come Koji Yakusho ed ecco pronto un prodottino visto, stravisto e stracotto che sta facendo incetta ovunque di critiche smodatamente positive.

La trama: le giornate ripetitive e sempre uguali di un uomo che pulisce bagni pubblici di design a Tokyo. Per due ore. Così. Nient’altro, se si esclude l’apparizione di qualche personaggino di contorno che scompare esattamente come arriva. Senza guizzi né emozioni.

Con una colonna sonora di brani occidentali che più ruffiana e scontata non si può. Però su audiocassetta, perché il protagonista ama l’analogico e – ma pensa un po’ – utilizza addirittura una macchina fotografica con pellicola in bianco e nero per immortalare la luce tra le foglie degli alberi e – ancora più pazzesco! -, legge persino libri stampati su carta. Mancava solo una collezione di vinili, un Ciao a miscela e l’Oscar era già in tasca.

Un inno alla lentezza e al valore delle piccole cose che arriva cinematograficamente fuori tempo massimo, grazie anche ad una banalità di scrittura che appiattisce qualsiasi spunto, ma genialmente spacciata per delicatezza d’autore.

Mi domando che fine abbiano fatto, nella memoria di chi si spertica in lodi senza fine, tutte quelle pellicole – orientali e non – che avevano già raccontato millemila volte meglio gli stessi, identici concetti. Ingenuamente ero convinto che “il valore delle piccole cose” fosse ormai venuto a nausea anche nel mondo dei Puffi. Però è girato in 4:3 che fa sempre molto figo e artistico. Ridateci “Paris, Texas”!

Voto: 1,5/5

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