Un brasiliano dall’applicazione teutonica nel mettersi al servizio degli equilibri di squadra. Un tedesco con l’eleganza di chi potrebbe essere cresciuto giocando a calcio sulla sabbia di Ipanema. Mário Zagallo e Franz Beckenbauer.

Quante probabilità c’erano che due delle uniche tre persone ad aver vinto i Mondiali di calcio sia da giocatore che da allenatore, se ne andassero a poche ore di distanza l’una dall’altra? Oggettivamente, molto poche. Ma se credete che il destino ci lanci ripetutamente dei segnali, non sarete rimasti indifferenti. Non avrete derubricato tutto alla pura casualità, spendendo un attimo a pensare che il Novecento del calcio è sempre più polvere e memoria.

Memoria che si tramanda attraverso emozioni, immagini e racconti. E se, come il sottoscritto, non avete avuto la possibilità di ammirarli sul campo, dovete affidarvi alle parole di chi c’era. Vi parleranno di quell’estate in cui Beckenbauer e Zagallo si sono solamente sfiorati. L’estate di Messico ‘70.

La semifinale dell’Azteca, da bambino, faceva parte del mio immaginario sportivo. Con papà che mi raccontava di mezzo paese che si ritrova davanti alla tv del bar, delle finestre aperte e della diretta fino a tarda notte. L’urlo selvaggio al gol di Rivera, l’ansia che impregna l’aria. Un tedesco che gioca col braccio fasciato attorno al corpo. E io allora me l’immaginavo Beckenbauer. Non più calciatore. Un Cavaliere dello Zodiaco, elegante e sconfitto dopo 120 minuti di sudore e gloria.

Le immagini della partita, recuperate in qualche VHS, le avrei viste solo una manciata di anni dopo. Certe cose, però, si colgono al volo. Come deve essere successo anche al superbo Eduardo Galeano. «Contro la dominante tendenza al calcio di pura forza, modello divisione Panzer, lui dimostrava che l’eleganza può essere più poderosa di un carrarmato e la delicatezza più penetrante di un obice […] questo imperatore del centrocampo chiamato il Kaiser, che con gesti nobili comandava in difesa e in attacco: dietro non gli sfuggiva neanche un pallone; neanche una mosca, neanche una zanzara avrebbe potuto passare; e quando si lanciava in avanti era un fuoco che attraversava il campo».

Beckenbauer conduce palla nella finale mondiale del 1974

Kaiser ha la stessa radice semantica di Cesare. Un nome che si tramuta in gloria. Colui che impera. Titolo quantomai meritato se, dopo l’esperienza messicana, con la maglia della nazionale porti a casa l’Europeo del 1972 e il Mondiale del 1974, conquistato davanti alla meravigliosa Olanda di Cruijff e del totaalvoetbal.

Ancor prima di giganteggiare sul calcio tedesco ed europeo, però, Kaiser Franz aveva già impresso la propria indelebile firma sul grande libro del pallone. Beckenbauer è stato forse il primo, vero, calciatore totale. In grado di lasciare il segno in tutte le fasi di gioco della propria squadra. Pure in panchina, guidando l’ultima Germania Ovest delle storia sul trono del mondo a Italia ‘90.

Su Mário Jorge Lobo Zagallo, detto formiguinha – formichina, i grandi autori non hanno scritto versi da tramandare all’epica. Il destino di chi è consapevole che la copertina se la prenderà sempre il primo violino, ma si rende comunque fondamentale per l’equilibrio sonoro dell’orchestra.

Zagallo, che di mestiere sarebbe stato un’ala sinistra, ha suonato in due delle orchestre che hanno sconvolto le melodie del calcio. Quel Brasile che realizza la doppietta Mondiale 1958 e 1962. Il Brasile della filastrocca Didì – Vavà – Pelè. Quello che largo sulla destra schierava un refolo di vento di nome Garrincha. Certi geni suonano una musica che sentono solamente loro, ecco perché in entrambe le edizioni verdeoro Mário mette le sue note al servizio della squadra. Ha segnato solamente due reti, ma si è reso utilissimo nei recuperi difensivi.

Chissà se ha ripensato a quelle esperienze quando, nel 1970, si ritrova tra le mani la bacchetta per dirigere la formazione con più talento che si sia mai vista da quando ventidue persone si ritrovano su un campo a prendere a calci una sfera. Jairzinho, Gerson, Tostão, Pelé e Rivelino; cinque numeri 10 in campo assieme per sgretolare i sogni azzurri e portarsi definitivamente a casa la Coppa Rimet.

L’Italia deve emanare qualche particolare vibrazione a Zagallo, Direttore Tecnico al fianco del CT Parreira al Mundial americano del 1994. Vestito con una drammatica tuta in acetato accompagna l’allenatore in panchina durante tutte le partite e, dopo aver visto il pallone di Baggio alzarsi verso il cielo di Pasadena, sale sul podio (senza tuta) e bacia il suo quarto titolo mondiale.

Beckenbauer e Zagallo si sono affrontati un’unica volta. Il 16 giugno 1973, in campo il primo e in panchina il secondo, in un’amichevole di fine stagione risolta da una rete di Dirceu. I tedeschi, campioni d’Europa in carica, si avviavano al mondiale che avrebbero ospitato l’anno seguente. Il Brasile era ormai un pallido ricordo di quello ammirato in terra messicana. La rassegna iridata era pronta a confermarlo.

Parreira e Zagallo (a destra) ad USA ’94

L’articolo che state leggendo potrebbe tranquillamente chiudersi qui. Il suo compito, in fondo, potrebbe dirsi assolto. Ma non sarei onesto se evitassi di dedicare un paio di righe anche ad alcune delle ultime, non certo tenere, istantanee calcistiche dei nostri due.

Kaiser Franz che si rifiuta di collaborare durante l’indagine sull’assegnazione dei campionato del mondo a Russia e Qatar e accusato da Der Spiegel di aver comprato, in qualità di presidente del comitato organizzatore, 4 voti decisivi della FIFA per assicurare alla Germania l’organizzazione di quello del 2006. E Zagallo, tornato per l’ultima volta CT verdeoro, mentre guarda Zidane e compagni sollevare la coppa nel 1998. Impietrito così come deve esserlo stato qualche ora prima, una volta avvisato dell’ormai famosa “crisi epilettica” di Ronaldo. Tornati a casa, verrà accusato di non essersi opposto alle pressioni della Nike per farlo comunque scendere in campo.

Mário Zagallo se n’è andato sabato 5 gennaio. Franz Beckenbauer ci ha salutato, al netto dei fusi orari, nemmeno 48 ore dopo. Malgrado qualche ultima ombra, la luce irradiata per anni sull’universo del calcio è stata assolutamente fulgida. Oggi è giusto celebrare quella.

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