Erano passati pochi minuti dopo le 20 quando Peter Gabriel in persona, vestito in tuta arancione come gli addetti al palco (una mise che ricorda moltissimo quella utilizzata dai carcerati americani) è salito, coppola in testa, per leggere in italiano una lettera al suo pubblico. Una lettera che aveva a che fare con il nostro pianeta, l’ambiente, il futuro che ci aspetta. Subito dopo, e una volta dismessi i panni arancioni, Peter Gabriel si è seduto con una tastiera giocattolo sulle ginocchia attorno a un ideale falò e, raggiunto dal fido Tony Levin, ha intonato le prime note di un concerto che rimarrà impresso nella memoria dei tanti fan accorsi in riva all’Adige per l’occasione. I quali si sono presentati in Arena – regalando a suo modo un ulteriore spettacolo – bardati di coloratissimi spolverini a prova di pioggia, La quale ha fatto effettivamente capolino a partire da una mezz’oretta prima dell’inizio del concerto per poi proseguire sottile e incessante per circa un’ora, ma senza creare troppo disagio. Alla fine, però, anche lei si è arresa alla musica di Gabriel che ha avuto la meglio, insieme ai suoi fan, anche sulle intemperie.

Seguendo pedissequamente la scaletta che aveva già proposto pochi giorni prima a Cracovia, in Polonia, in quello che era stato il debutto ufficiale del i/o tour, Gabriel ha voluto proporre una performance “a sorpresa”, con ben dodici brani inediti del nuovo disco, di cui ufficialmente sono stati pubblicati online fino ad ora soltanto cinque. Brani dal sound inconfondibile, che hanno permesso da una parte di apprezzare la sempre grande creatività dell’artista, tornata dopo anni di oblio in grande spolvero, e dall’altra di conoscere un lato quasi “pioneristico” di Gabriel, che non ha voluto per questa serie di concerti attingere troppo alle consolidate hit del suo repertorio.

Foto di Ernesto Kieffer

Certo, quando il pubblico si è ritrovato con i brani che hanno fatto la storia della carriera dell’ex Genesis è esploso, come di consueto, in urla di gioia e si è fatta trascinare dalla band molto più che dagli inediti, ma questo non era che un rischio calcolato, anzi, per certi aspetti voluto. In fondo il coraggio se non ce l’hai non te lo puoi dare e Gabriel da questo punto di vista può vantare una tale credibilità alle spalle da potersi permettere qualsiasi tipo di sperimentazione. Non solo il suo pubblico glielo perdonerebbe in ogni caso, ma in realtà qui non c’era proprio nulla da perdonare, visto che la qualità del concerto è rimasta altissima per tutte le due ore e mezza di durata. Anzi, gli inediti da un certo punto di vista hanno regalato un ulteriore motivo di interesse oltre il revival che ha reso e renderà questa tourneé ancora più significativa.

Tornato a Verona dopo tredici anni dall’ultima volta, Gabriel ha iniziato il suo concerto con “Washing of the Water” per poi dare subito un giro al pubblico con la “ferrosa” Growing Up”, sia pur addolcita dalla sua versione in acustico. Poi sono arrivate in rapida successione “Panopticom”, la splendida “Four Kinds of Horses” e “i/o”, il brano che dà il titolo all’intero tour.

La prima vera esplosione arriva con “Digging in the Dirt” tratto dall’album “Us” del 1992, su cui c’è anche un divertente siparietto: Gabriel sbaglia l’intonazione e dopo qualche secondo chiede, fra le risate divertite di Levin e David Rhodes, alla band di fermarsi per ricominciare da capo. Tutto molto sincero, tutto molto familiare.

Si prosegue poi con “Playing for Time” e le “nuove ” “Olive Tree” e la meravigliosa “This is Home”. Tutti brani che hanno accompagnato per mano lo spettatore all’interno del magico mondo “gabrieliano”, con le consuete sfumature elettroniche che non disdegnano di spaziare fra pop, soul e ovviamente rock, in un amalgama sonoro che definire unico è riduttivo. Nel complesso si può affermare che l’inevitabile spiazzamento iniziale lascia con l’avanzare del set sempre più spazio alla curiosità per queste nuove creazioni, che già al primo ascolto regalano emozioni altissime.

Ovvio che poi con la successiva e immancabile “Sledgehammer”, che chiude con il botto la prima parte della serata, il pubblico si scalda finalmente, dopo aver passato oltre un’ora a tentar di “riconoscere” le tante novità proposte dalla star inglese.

Foto di Ernesto Kieffer

Dopo circa un quarto d’ora di pausa, la seconda parte si apre con “Darkness”, ancora una volta tratto da “Up”, per poi proseguire con “Love can heal” e la divertente “Road to Joy”, un inno con cui Gabriel invita ognuno a cercare la propria personalissima strada verso la felicità.

Con “Don’t give up” arriva forse uno dei momenti più alti dell’intero set, con il duetto da brividi fra Gabriel e la meravigliosa violoncellista-pianista-corista Ayanna Witter-Johnson, che si prende la scena incantando con la sua voce, delicata e potente allo stesso tempo. Il pubblico apprezza. Dopo l’altro inedito “The Court” arriva – quando la pioggia ha abbondantemente smesso di scendere – “Red Rain”, un grande classico di Gabriel che in questo caso forse non viene eseguita al meglio delle possibilità dalla per il resto affiatata band formata dai fedelissimi Manu Katché alla batteria, i già citati Tony Levin al basso e David Rhodes alle chitarre, e i “nuovi” Don McLean alle tastiere e voce, Richard Evans alla chitarra, flauto e voce, Marina Moore al violino, viola e voce, Josh Shpak alla tromba, corno, tastiere e voce e alla stessa Witter-Johnson.

Gabriel dedica a sua madre la struggente “And Still”, prosegue con “What Lies Ahead” e si diverte (e diverte il pubblico) con la festosa “Big Time”, anche se la scelta di privilegiare questo brano rispetto ad altri ben più suggestivi lascia qualche perplessità.

La seconda parte si chiude un po’ come la prima, con un inedito, “Live and Let Live” (il cui titolo fa il verso alla celebre canzone di Paul McCartney) e all’intramontabile “Solsbury Hill” che con il suo riff e i balletti del trio Gabriel-Rhodes-Levin finalmente fa scattare in piedi tutto il pubblico, rimasto fino a quel momento compostamente seduto.

Peter Gabriel in concerto in Arena – Foto di Sarah Baldo

Pubblico che, a quel punto, non si risiede più. È infatti arrivato il momento dei bis, che iniziano con “In your eyes”, nella sua classica versione corale, con Gabriel che prima dialoga con il “basso” (strumento e voce) Tony Levin e poi si muove, quasi correndo, da una parte all’altra del grande palco areniano per dialogare con il pubblico, in quella che è a tutti gli effetti la celebrazione di un rito collettivo che si consuma da quasi quarant’anni, da quando cioè è uscito il brano in “So” e viene costantemente riproposto nei live.

Il pezzo finale, infine, è dedicato a tutti coloro che lottano per la libertà e sono disposti ad arrivare all’estremo sacrificio della propria vita. Come il caso di “Biko”, cioè Stephen Biko, l’attivista sudafricano che venne assassinato nel 1977 dal regime dell’apartheid. La canzone con i suoi colpi ritmati di batteria, il suo ritornello gridato a squarciagola, il pugno alzato dai 13mila dell’Arena rappresenta per molti aspetti l’ideale conclusione di una performance raffinata e di grandissima qualità, che ha dimostrato come si possa essere, anche in un età da “greatest hits” – come peraltro fanno la maggior parte dei colleghi suoi coetanei ancora in giro – innovativi e propositivi con l’intento di sorprendere ancora. In questo senso, d’altronde, Peter Gabriel non è mai stato secondo a nessuno.

Foto di Ernesto Kieffer

© RIPRODUZIONE RISERVATA