La natura, Baku, capitale e centro del commercio dell’Azerbaijan, è chiara fin da subito. Appena atterri all’aeroporto internazionale Heydar Aliyev. Da lì in poi si dipana un fiume di asfalto su cinque corsie, che attraversa imponenti strutture illuminate. Tuttavia, non è certo questo che ottiene l’attenzione del visitatore, quanto piuttosto il parco macchine che sfreccia, in pieno stile mediorientale, a cavallo tra l’una e l’altra corsia. BMW, Mercedes, Lexus, alta gamma. Le Toyota e le Kia hanno preso il posto delle vecchie e nostalgiche Lada dei tempi dell’Unione Sovietica, ormai relegate nella polvere dei budelli nella zona industriale della città. «È una questione di bassa tassazione – risponde al nostro sguardo stupito Servet, turco, che ha deciso di dividere con noi il taxi – hanno molte meno tasse a importare dalla Germania rispetto a noi.»

Mentre il nostro autista avanza in modo spericolato verso il centro città, gli edifici confermano la prima impressione. Palazzi anni ’60 (ma di pregio, niente a che vedere con l’edilizia popolare ex URSS) si mischiano a costruzioni dal gusto ben più moderno, tutti vetro e cemento, sullo stile dei quartieri ricchi della parte asiatica di Istanbul. Eppure questo sviluppo non è così recente, e soprattutto non deriva dall’aumentata visibilità dovuta dallo scambio di gas azero con l’Occidente.

L’oro blu per diventar grandi

Lo skyline di Baku.
Foto di Niccolò Gastaldello

Come giustamente ci ricorda Elman, collaboratore locale, negli anni ’30 dell’800 all’Azerbaijan si doveva il 95% di tutta la produzione mondiale di petrolio, cosa che però non lo rese simile a uno dei Paesi del golfo. In realtà è stato il gas a portare l’Azerbaijan verso la ricchezza del primo mondo, e non da oggi, ma da almeno vent’anni; con il progressivo distanziamento dalle fonti di energia non “pulite” come il carbone, spinto soprattutto dalle economie europee, questo piccolo Paese ha saputo creare una rete di gasdotti capace di convogliare l’oro blu verso i maggiori Paesi manifatturieri europei (Italia compresa), attirando il denaro degli investimenti delle BigCo Oil&Gas.

Il legame sempre più avvolgente con l’Occidente non è testimoniato solo dalla bilancia commerciale. Basta passeggiare per il centro di Baku. Presentissime le catene di fast food americane, ma anche i grandi marchi del lusso europei; difficilmente rintracciabili i veli sulle ragazze (se si fa eccezione per la grande quantità di sauditi ed emiratini in vacanza), addirittura ridotto solo a un leggero rumore di sottofondo, ormai, la chiamata del muezzin alla preghiera, in un Paese che comunque rimane per il 95% dei suoi abitanti di fede musulmana.

Una generazione di mezzo

Suleyman è un perfetto esempio della “generazione di mezzo”, quella che è nata comunista e morirà capitalista: «Ormai più nessuno delle nuove generazioni parla russo – ci confida – parlano azero (di fatto un dialetto turco) e studiano l’inglese a scuola. Abbiamo chiuso ormai tutti i nostri legami con la Russia. Nessuno penserebbe più, come ho fatto io, di fare l’Università a Mosca. Sognano Londra, o al massimo la Germania”.

Un palazzo del centro storico di Baku.
Foto di Niccolò Gastaldello

Lo scollamento con la Federazione Russa è stato, dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica e il conseguente bagno di sangue prima dell’indipendenza (l’Azerbaijan è stato il primo paese, dopo le tre repubbliche baltiche, a dichiararla), pressoché totale. Tanto che la Russia ha iniziato a sostenere in maniera importante il grande nemico dell’Azerbaijan, l’Armenia, spingendo Baku tra le braccia della Turchia prima, e dell’Unione Europea dopo.

Ma se l’UE è vista come un partner economico di primo interesse, la relazione con il “fratello turco” è da mantenere salda per motivi diversi rispetto a quelli economici. Ci riferiamo, ovviamente, a quelli di natura strategico-militare.

Mentre la nostra macchina viaggia dal Mar Caspio verso ovest attraversando i pendii semi-desertici che circondano Baku e spingendosi attraverso le montagne che circondano Samaxi, la prima capitale dell’Azerbaijan, si alternano ai lati della strada le foto di ragazzi in divisa, con scritte che inneggiano al loro coraggio e al loro valore.

Sotto alle foto, per molti, due date. La seconda porta invariabilmente al periodo tra il settembre ed il novembre del 2020 quando l’Armenia ha, ovviamente secondo la voce locale, sconfinato nel territorio del Nagorno-Karabakh azero, supportata ­da milizie russe. Le operazioni belliche terminano con la tregua del 9 Novembre 2020, per volontà del presidente russo Vladimir Putin.

Nell’avanzata dell’autunno 2020, se dalla parte armena vi erano alcuni contingenti dell’esercito russo, dirottati dalla Siria, al fianco di quello azero vi era di certo quello turco (in molte tombe e ad memoriam sono ricordati anche i caduti turchi, con la loro bandiera), che gli ha assicurato la supremazia aerea nel conflitto grazie agli ineguagliabili droni modello Iskender, ormai globalmente famosi per le loro performance nel conflitto ucraino.

Una data che potrebbe rivelarsi fatidica

Così, a cena, tra un bicchiere di succo di melagrana (quello di Goycay è famoso in tutta l’Asia Centrale) e uno di vodka (uno degli ultimi retaggi dell’appartenenza all’URSS) il discorso vira invariabilmente sulla politica.

La preoccupazione del popolo azero è tutta legata a ciò che succederà il 14 Maggio 2023, al di là del monte Ararat (ma Agri Dagi da queste parti). Il loro sostegno a Recep Tayyip Erdogan e all’AKP è quasi unanime e attraversa le diverse classi sociali individuando l’ex sindaco di Istanbul come l’unico in grado di resistere alle prepotenze di Putin.

Un’altra immagine di Baku.
Foto di Niccolò Gastaldello

La coalizione di sinistra guidata da Kemal Kilicdaroglu (in vantaggio nei sondaggi, e specialmente dopo le polemiche post-terremoto) potrebbe non avere la stessa idea di “Buyuk Turkiye”, la Grande Turchia, e abbandonare i fratelli azeri al loro destino.

Così, la città vivrà un weekend di spensieratezza a fine aprile, quando il circo della Formula 1 si fermerà in città per il Gran Premio dell’Azerbaijan, sul circuito cittadino di Baku (la cui già congestionata mobilità diverrà di fatto impraticabile); gli introiti, l’indotto, la città piena di turisti. Tutto il meglio che il faro dell’occidente riesce a garantire.

Ma una volta spente le luci, è di nuovo ad Ankara che l’Azerbaijan tornerà a rivolgersi. Con gli occhi puntati a quel 14 maggio che potrebbe cambiare moltissime cose. In Turchia e in Azerbaijan.

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