Si è tenuto mercoledì sera, 22 marzo, il giorno dopo la “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie” in sala conferenze Stadio, l’incontro pubblico con l’associazione Libera e Tiberio Bentivoglio, imprenditore calabrese che si è rifiutato di pagare il pizzo, ribellandosi così alle intimidazioni e alla violenza mafiose.

Organizzato dal Coordinamento provinciale di Libera Verona, l’evento ha goduto del coordinamento di diverse realtà veronesi: il comitato Fossi di Montorio, l’Albo nazionale Gestori ambientali – sezione Veneto – col patrocinio del Comune di Verona e la partecipazione di Jacopo Buffolo, assessore alle Politiche giovanili.

‘Ndrangheta, problema anche veneto

La ‘ndrangheta da anni affligge anche il territorio veronese, come sottolineato da Rossella Russo per Libera Verona: i processi in corso (Isola scaligera, Taurus, Casalesi di Eraclea), i numerosi beni sequestrati e confiscati, le interdittive antimafia emesse dal prefetto Donato Cafagna testimoniano come anche il nostro territorio sia profondamente infiltrato dalla criminalità organizzata. E si lega ad un triste primato del Veneto: i suicidi degli imprenditori per usura.

Tiberio Bentivoglio

La testimonianza di Tiberio Bentivoglio è intensa e ferma. Parte dalla cronaca del momento: tredici famiglie di ‘ndranghetisti nella provincia di Verona, con condanne per 150 anni complessivi nel processo al clan Giardino.

Non gli piace il termine “testimone di giustizia”, perché convinto che ad essere vittime delle mafie siano le persone che pagano, non chi si ribella: «Testimoni di verità in attesa di giustizia dovrebbe essere il nome giusto», dichiara. Attesa spesso frustrata, visto che l’80% delle vicende di questo tipo finiscono in un nulla di fatto.

Il prezzo pagato per dire no

La sua vicenda umana parte da lontano, quando da piccolo imprenditore di articoli sanitari, ortopedici e di puericultura a Reggio Calabria, nel 1979 riesce a costruire la sua attività e nel 1992 ad ampliarla e, a questo punto, arrivano le richieste, puntuali e ineludibili, del pizzo da parte de l‘ndrangheta.

14 marzo 1992: all’inaugurazione del secondo negozio della “Sanitaria Sant’Elia”, la ‘ndrangeta si presenta: «ti stai arricchendo e, a noi, ci lasci da parte – ricorda Bentivoglio -. Addirittura, stai aprendo senza chiederci l’autorizzazione». L’imprenditore ne parla con la moglie, e insieme decidono: noi non paghiamo.

Le denunce alle forze dell’ordine fanno comprendere a Bentivoglio di essere solo: la sua attività viene prima razziata. Una bomba, il 5 aprile 2003, dà poi un duro colpo al negozio e al palazzo. Ma, nella via, dopo il boato, nessuno è uscito per vedere cosa sia successo.

La difficoltà di ripartire dopo gli attentati

Certo, ci saranno due condannati, ma a colpirlo maggiormente sono «gli amici di cartapesta», le conoscenze di una vita non vanno più a comprare nel suo negozio, non stanno a lui vicino dopo le denunce. Il 13 aprile 2005 il negozio viene raso al suolo dall’incendio. In totale, la sua attività subisce sette attentati e viene distrutta due volte.

A questo punto la tentazione di mollare tutto è forte, ma la moglie lo dissuade. Gli aiuti economici alle vittime previsti dalle leggi dello Stato ci mettono tre anni per arrivare, e nemmeno tutti. I soldi mancano, molti fornitori si ritirano, alcuni continuano a dare fiducia e il negozio riparte, anche se uno alla volta vengono licenziati tutti i dipendenti. Intanto, il quartiere smette di servirsi dal negozio.

Bentivoglio decide che è il momento di spostarsi. Nessuno a Reggio Calabria gli vuole affittare un negozio. Così, chiede un bene confiscato alla Stato che nel 2015 viene concesso, ripristinato a sue spese con 81.000 euro e da lui preso in affitto.

Le condanne penali e l’attentato

Intanto, la giustizia si è messa in moto e vengono individuati i colpevoli; Bentivoglio si costituisce parte civile e, inaudito all’epoca per un imprenditore, chiede i danni alla ‘ndrangheta. Ma rimane un percorso in salita: ci vogliono mesi per trovare un avvocato e solo nel 2010 si arriva a una sentenza di condanna per tre persone per associazione di tipo mafioso.

I procedimenti penali sono ben sei e l’ultimo, ancora aperto, rischia la prescrizione. Ma anche la criminalità organizzata si è messa in moto: l’anno dopo, nel 2011, Bentivoglio subisce un attentato e rimane ferito: sei colpi di pistola alle spalle, di cui tre a segno.

Oggi e domani

Tiberio Bentivoglio

Ancora oggi Bentivoglio vive vicino al suo negozio, nella sua terra. Sotto scorta. Ancora oggi, i carabinieri passano ogni ora per quella che viene chiamata “sorveglianza dinamica”. Ma dichiara orgogliosamente di poter camminare a testa alta.

Di fronte a questo quadro piuttosto fosco in cui risalta una volontà forte nel deserto del contesto sociale e delle istituzioni, lascia intravedere uno scorcio di speranza la presentazione in apertura dell’incontro di “Un albero del futuro”, prodotto creativo dei ragazzi dell’IC “Stadio-Borgo Milano” che testimonia il loro percorso di educazione nell’ambito della legalità. Su queste attività educative nelle scuole promosse da Libera Bentivoglio punta le sue speranze per il cambiamento.

Bentivoglio porta un racconto di coraggio, forza, in cui però la burocrazia e la lentezza della macchina della giustizia lasciano intendere che il coraggio non serve solo ad opporsi alla criminalità. Forse anche conscio di questo effetto sul pubblico, Bentivoglio conclude ammonendo a «non commettere l’errore di presentare come eroi coloro che si rifiutano di collaborare con la mafia».

Il dire di no, il rifiutarsi deve essere considerato la normalità, non un eccezione riservata a un’élite di alto profilo etico.

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