Sono state in Italia in un tour poetico conclusosi un mese fa, il 24 novembre, tappa ad Abano Terme, Verona, Bologna, Trento, Milano e Roma. Natalia Beltchenko, Iya Kiva e Oksana Stomina hanno portato i loro versi insieme alla testimonianza di cosa sia la resistenza del popolo ucraino, e di come la letteratura diventi strumento espressivo urgente, necessario. Ne è nata una conversazione a tre, che pubblichiamo oggi, vigilia di Natale, dieci mesi di guerra.

Cosa sta succedendo nella cultura poetica ucraina? Quali sono le nuove parole e i nuovi significati attuali?

Oksana Stomina – «C’è una fioritura letteraria enorme, e nello stesso tempo cambia la gerarchia dei generi. Molte persone, me inclusa, osservano che dal 24 febbraio 2022 non è fisicamente possibile leggere le opere lunghe in prosa. Se cerchi di leggere, girerai le pagine senza riuscire a concentrarti. Invece le poesie sono ben accette, trasmettono le emozioni che rispecchiano i sentimenti delle persone. Come in passato, nei momenti critici la poesia offre consolazione, permette di reagire velocemente e ha un certo effetto terapeutico sia sui lettori che sugli autori stessi».

Iya Kiva: «Non sono d’accordo, la poesia non è solo terapeutica. Dopo il 2014 sottolineare il valore meramente terapeutico della poesia ne sminuisce l’importanza, come se fosse un fatto puramente estetico, di poco conto, qualcosa che è utile solo per la persona che la scrive. Ma la poesia in effetti cura, come qualsiasi altra forma d’arte. Io mi ribellavo in passato quando nella nostra regione (Donbass, N.d.a) per un certo periodo molte persone denigravano le autrici che scrivevano di guerra, dicendo: “Vi state facendo pubblicità usando il tema della guerra, raccontando cose vostre personali”. Lo facevano per zittirci e per mantenere il proprio privilegio di non sapere certe cose. Per me scrivere è difficile, non lo faccio spesso. A volte è complesso capire chi si sia in questa guerra sulla griglia delle coordinate attuali. Chi sono e a chi mi rivolgo? È molto difficile per me provare e collocare me stessa.

Iya Kiva in tour in Italia, foto di Marina Sorina

Le parole sono diventate molto precise: quando diciamo “guerra” non è mai una metafora. Per molti anni ancora, gli ucraini non potranno dire “è una guerra contro qualcosa”, se non nel senso diretto della parola. Adesso liberiamo la lingua dalle metafore vetuste per riempirle di sensi nuovi.

Ho notato anche che la poesia ci restituisce la possibilità di provare delle sensazioni. Molte persone si sentono congelate, si concentrano su questioni pratiche, per non provare nulla. Non parlo nemmeno dei militari, che sono un caso a parte. Anche chi è nelle retrovie si concentra sul volontariato e si preclude i sentimenti. Spesso i lettori mi scrivono, dicendo: “Grazie per averci fatto sentire tramite le poesie le nostre emozioni, ce le hai restituite”. La poesia è l’unica voce che abbiamo, ora. La poesia è come un paramedico: corre per primo per dare il primo soccorso alle persone ferite».

Natalia Belchenko – «Sono nate tante parole nuove, ad esempio polnomaschtàbka (“la guerra su vasta scala”), ma poche di queste appartengono alla poesia. Una volta ho cominciato a scrivere una poesia in cui ho usato la parola “duecentesimo” (nel gergo militare russo, usato ora anche dai civili, “200” è un termine in codice che indica i cadaveri trasportati dal campo di battaglia, nda). Però suonava stonato: non avevo diritto di usare questa parola.

Di recente Ostap Slivinskyi, poeta, saggista e traduttore ucraino, ha creato un progetto nuovo intitolato proprio “Le parole della guerra”, dove ha trascritto le storie di persone coinvolte nel conflitto. È un libro che fra poco verrà pubblicato in Ucraina e tradotto in varie lingue, è importante perché è un concentrato di nuovi significati».

www.wordsforwar.com

Il sito dedicato al progetto letterario Words of war, Parole di guerra, contiene anche un glossario: l’elenco permette di cogliere le sfumature di significato che nel tempo termini legati al fare ed essere in guerra stanno assumendo nel linguaggio contemporaneo.

Che accoglienza state avendo dal punto di vista umano e non solo letterario? Che cosa vi spinge a mettervi a scrivere?

I.K. – «Quando scoppia la guerra, tutto diventa bianco e nero, come in un file mp3 che comprime il suono al minimo, e il resto viene tagliato fuori. La poesia diventa meno metaforica, più concreta e documentale. L’importante è che il lettore possa capire esattamente, leggendo le mie poesie, cosa è successo, cosa ho visto, qual è il mio atteggiamento verso quanto accaduto. C’è un’alta concentrazione di emozioni in questi reportage in versi. E ci sono gruppi di persone ai quali non posso rivolgermi, perché non ho il loro vissuto: non avrei nulla da dire a chi è stato a Mariupol, o a chi è sul fronte. Come diceva Socrate, il poeta deve essere come un tafano che punzecchia le persone che dormono. Noi ci rivolgiamo a chi non sa, non ha vissuto, per svegliarli. Portiamo la guerra nella nostra valigia, a chi la ignora.

Spesso devo costringermi a scrivere, perché non vedo il senso di scrivere solo per me stessa. Altri poeti sono così pieni di dolore, hanno vissuto emozioni talmente forti da doverle esternare in forma poetica. Il loro scrivere è una promessa per il futuro di noi tutti, perché ci fa vedere che anche gli altri poeti vedranno tornare il dono della parola, e il ritorno alla vita creativa normale.

La sfida che affrontiamo è la realtà che evolve molto rapidamente. Se non ne scrivi oggi, domani accadrà qualcos’altro di importante. Bisogna essere veloci nel fissare gli eventi, è un nostro dovere di cronaca. La nostra poesia non è forse una deposizione al tribunale dell’Aia vera e propria, ma è un commento a questa futura testimonianza.

N.B. – «Capisco l’importanza della mia poesia quando la vedo tradotta rapidamente in varie lingue. Se una mia poesia è tradotta in sei lingue, mi da la prova di aver scritto una poesia che in molti vogliono sentire. Infatti, per me il cambiamento più importante è l’apertura verso i lettori stranieri».

O.S. -«Ogni autore ha già una propria cerchia di lettori storici, che lo seguono e capiscono il suo linguaggio, ora continuano a seguirci. Di solito i nostri lettori esprimono gratitudine, scrivono dicendo “grazie per aver espresso quel che noi sentiamo”. All’incontro di Verona, una delle ragazze ucraine venute ad ascoltarci a Casa di Ramia si è avvicinata dicendo “ti seguo su Facebook”, e ha citato a memoria alcune mie righe. Per me è ogni volta una piacevole sorpresa».

Quali sono le difficoltà di scrivere dal punto di vista artistico ed emotivo, mentre prosegue il conflitto e non c’è spazio per il lutto?

I.K. – «Dai primi di marzo, abito sempre in stretto contatto con persone estranee, non ho “una stanza tutta per me”, parafrasando Virginia Woolf. Non posso gestire autonomamente né il tempo né lo spazio. A volte non riesco fisicamente a completare una poesia senza che qualcuno mi interrompa. Una delle ultime volte che ho scritto una poesia ero in tram.

È difficile scrivere anche perché lo percepisco come un immeritato privilegio, rispetto alle persone che hanno vissuto delle perdite tremende, parenti uccisi, amici scomparsi nell’occupazione. C’è il privilegio di chi ha sofferto di meno che blocca la creatività. Sono stati i lettori stessi a dirmi, però: “vogliamo la poesia, basta con i notiziari!”. Nel 2014-15 già scrivevo cose che mi fanno ora star male, perché sono un déjà vu. La guerra è un soggetto insieme infinito e molto ripetitivo, per chi la vive sulla propria pelle: a un certo punto ti sembra che hai già detto tutto e non sai più cosa aggiungere, se ci rifletti ormai da quasi nove anni».

Natalia Beltchenko, foto di Marina Sorina.

N.B. – «Ho avuto un’esperienza antecedente che mi ha preparato all’impatto con le emozioni negative. Mia madre è stata ammalata a letto per un anno intero, e io me ne prendevo cura. Questo ha attutito le emozioni: ovviamente so cosa sta succedendo, ma non mi sento in costante tensione. La mia esperienza mi ha preparato nel bene e nel male alla guerra. È vero che comunque mi impedisce di scrivere, ma l’elaborazione del lutto nel mio caso è ammortizzata».

O.S. – «Nel 2014 non ero ancora profuga, non avevo provato l’esperienza di vedere la mia casa distrutta, come è successo quest’anno, ma lo immaginavo e sentivo per tramite degli amici, come per esempio Iya. Perciò, ora non sono scioccata più di tanto. Iya all’epoca mi aveva raccontato che per decidere di partire dovevano tirare a sorte, per stabilire chi avrebbe potuto essere salvato. E quando me lo raccontava, mi veniva la pelle d’oca. Già allora gridavo: voi lì in Occidente (dell’Ucraina e dell’Europa) non vi rendete conto, ma la guerra è scoppiata!

Ora a volte mi chiedo come mai non stia soffrendo così tanto per aver perso la mia casa. L’appartamento dove è cresciuta mia figlia, adesso è ridotto in cenere. C’erano i suoi disegni infantili, le sue foto, oggetti che amavo tanto, i miei diari d’infanzia, i manoscritti dei miei libri, le foto dei miei amici dei tempi di scuola. Ora non sento così forte la perdita individuale, perché c’è una perdita collettiva molto più importante. I sentimenti di chi ha perso una persona cara sono più importanti rispetto a miei sentimenti».

Cos’è per voi la speranza in questi tempi?

O.S. – «La speranza è la cosa più importante che abbiamo, perché ci dà le forze per resistere a questi tempi di guerra. La intendo come qualcosa più vicina alla fede. Quando sei sul fronte, il tuo compito è di non morire oggi. Devi per forza avere un domani verso il quale cercare di arrivare. Sono una persona molto ottimista, perciò credo nel trionfo della giustizia, e la giustizia siamo noi. Quando noi vinceremo, la giustizia trionferà».

I.K. – «Quello che Oksana chiama “speranza” io lo chiamo “rabbia”, ed è il sentimento più importante per me. Io non spero che vinciamo, io esigo: un mondo senza gli ucraini non mi interessa. Ho avuto una vita molto intensa, vivendo tanti eventi drammatici, per cui vedo la speranza come una debolezza. È comprensibile nelle situazioni come quella di Oksana, il cui marito è prigioniero. Io invece non voglio nutrirmi di speranze. Il peggior scenario è dietro l’angolo.

Però credo nelle persone che creano cambiamento. In guerra fai il tuo dovere al massimo, perché non hai scelta. Noi ucraini stiamo affrontando una sfida di civiltà, abbiamo già perso la prima tappa e tutte le battaglie precedenti, per cui se non vinceremo ora, non esisteremo più. Una mia amica, di famiglia benestante, che avrebbe potuto fuggire e ha anche dei figli da proteggere, mi ha scritto: “non voglio vivere in un mondo dove l’Ucraina potrebbe perdere”.

N.B. – «La nostra fede è attiva, si muove e ci fa muovere. Parafrasando il vostro Dante, per noi è la fede la forza “che move il sole e l’altre stelle”. Mio figlio è a Kyiv, io sono all’estero: devo per forza sperare che non gli succederà nulla di male, non c’è altra scelta».

Le tre poete ucraine Iya Kiva, Oksana Stomina e Natalia Beltchenko, ritratte da Roberto Filippini.

Il dialogo con le altre culture europee è migliorato? C’è ascolto dal punto di vista culturale?

N.B. – «In Polonia, dove mi sono trasferita, si sono aperti verso di noi in modo formidabile. Sapevamo da sempre che ci erano vicini, ma non riuscivamo ad immaginare quanto forte fosse il loro sostegno. Molti poeti polacchi scrivono poesie sugli eventi in Ucraina, e c’è tutto un dibattito: vale la pena scrivere così in fretta, reagendo agli eventi a scapito della qualità letteraria? In realtà fra queste opere ci sono già poesie di altissimo livello, alcune delle quali ho tradotto. Mentre lo facevo avevo l’impressione che i poeti polacchi riuscissero certe volte ad esprimere meglio di me quel che provo, usando parole più dure di quelle che avrei scelto.

Fra i volontari polacchi ci sono volontari che scrivono poesie, o traducono i nostri poeti e noi traduciamo subito loro. Così fa, per esempio, Janusz Radwański, un poeta che ha fatto servizio di volontariato alla stazione in Przemyśl e Rzeszów. Ci sarà un corpus dei testi interessante da leggere in futuro, perché permetterà ai profughi assistiti in quei giorni a capire cos’avevano in testa quei volontari coi gilet gialli che si davano da fare per aiutarli».

I.K. – «A mio avviso l’Ucraina non deve arrivare insanguinata sui palchi europei a vendere storie d’orrore. Il mercato polacco e tedesco è da sempre molto aperto alla letteratura ucraina. In Polonia la nostra è la prima lingua dalla quale si traduce, ed è così da tempo. In Francia invece l’unico scrittore noto è Andrii Kurkov, che ci ha vissuto per lunghi periodi, ma ricordiamoci che lui scrive in russo, pur essendo uno scrittore ucraino che promuove attivamente la nostra causa. Adesso molti mercati si aprono alla nostra cultura per la prima volta: è uscita la prima antologia di poesie ucraine in Italia, in Svezia. Ma com’è possibile, che non fossero arrivate prima?

In tempi di guerra la cultura è sempre la prima a risentirne. Dopo la nostra vittoria, si investirà soprattutto nella ricostruzione, e non nella cultura. Ma noi lavoriamo per il futuro e prevediamo che ci sarà un momento in cui i nuovi libri ucraini, probabilmente sovvenzionati dall’estero, verranno lanciati in contemporanea in traduzione in diverse lingue.

Spero che dopo la nostra vittoria si manterrà lo stesso livello di interesse a cui assistiamo oggi. L’importante è che non sia solo una carità che ci viene concessa in occasione di eventi traumatici. Quando lavoreremo per organizzare insieme progetti editoriali, festival letterari in futuro, i rapporti dovranno essere duraturi e paritari. Non siamo qui per mendicare attenzione, bensì per condividere con voi la ricchezza del nostro patrimonio culturale.

Il nostro sogno è poter rapportarci ad esempio con l’Italia, e sapere che il pubblico conosce i nostri classici come Taras Shevchenko».

Avete dei modelli di riferimento che sentite più vicini nel vostro impegno poetico e civile?

O.S. – «Ammiro i numerosi rappresentanti dell’intellighenzia creativa che hanno deciso di arruolarsi o a diventare volontari. Poeti come Serhii Zhadan, cantanti come Oleh Kadanov e tanti altri, potevano benissimo espatriare ma hanno preferito arruolarsi volontari e andare al fronte. Posso menzionare gli scrittori Artem Chekh e Artem Chapai, Pavlo Vyshebaba, un bravo poeta, oppure Vahtang Kipiani, ricercatore di storia letteraria, o ancor Dmytro Krapivenko, capo redattore del giornale “Tyzhden”, i membri dei gruppi musicali di successo come Antitela, oppure il gruppo musicale O.Torvald, che ha partecipato all’Eurovision l’anno scorso. Nell’esercito ci sono anche le poete Lesia Litvinova, Liza Zharikova, Olena Herasimiuk, Yaryna Chornohuz, diventata paramedico».

Quando venite in zone dove la guerra sembra lontana, che emozioni provate?

I.K. – «Noi del Donbass viviamo la guerra da troppo tempo, e sembra quasi più familiare della pace. Questa scena che molti vivono ora per la prima volta – arrivare dal fronte in una città pacifica – la conosco da anni. La gente vive la propria vita come se nulla fosse, è normale, non tutti devono per forza vivere a Mariupol, non auguro a nessuno di provare quel che abbiamo provato noi. Però questo contrasto fra la pace e la guerra è una esperienza dolorosa». 

Oksana Stomina, foto di Marina Sorina.

O.S. – «Quando ho visto che mia figlia chiama da Kyiv alle 5 di mattina del 24 febbraio, avevo già capito che cosa stava accadendo. Paradossalmente, il mio primo pensiero è stato: “Spero che l’attacco riguardi solo noi di Mariupol che siamo abituati, ormai, ma non voglio che tocchino il resto del Paese”. Non era solo la premura di una madre per la propria figlia: noi eravamo più preparati, volevo proteggere il resto dell’Ucraina che ha vissuto per anni in relativa spensieratezza.

Quando sono arrivata in Europa ai primi marzo, ho pianto in ogni Paese che attraversavo, guardando la bellissima architettura attraverso il prisma della guerra. Mi veniva da urlare: “il nostro mondo è così fragile, la guerra distrugge tutto quel che l’uomo costruisce, per questo va fermata!”»

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