Ricorre il 25 novembre la Giornata internazionale della violenza contro le donne, data simbolo di una battaglia sociale e culturale che quotidianamente centri antiviolenza in tutta Italia e nel mondo contrastano sistematicamente attraverso il loro operato a tutela delle donne vittime di violenza di genere.

Aspetto integrante della stessa battaglia che invece è poco dibattuto e noto al grande pubblico, è l’esistenza e il lavoro dei Centri per uomini autori di violenza di genere (CUAV).

Un luogo per gli uomini maltrattanti

Previsti dalla Convenzione di Istanbul (la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia dalla legge del 27 giugno 2013) nell’articolo 16 della stessa, i Centri per uomini autori di violenza nascono come strumento di prevenzione della violenza di genere, che sia fisica, psicologica, sessuale o/e economica.

Un lavoro di prevenzione che sappia stimolare una riflessione culturale in grado di prevenire potenziali autori di violenza e che proponga invece un percorso rieducativo per coloro che sono già autori di violenza in modo da dissuaderne la possibilità di recidiva.

Chiara Moretti è la coordinatrice del CUAV “Cambiamento Maschile” di Montebelluna (TV), uno dei sette centri operanti in Veneto, realizzato dalla cooperativa sociale “Una casa per l’uomo” di Treviso in collaborazione con il Comune di Montebelluna. Il centro segue mediamente 60 uomini l’anno proponendo un percorso della durata 18 mesi, oltre a lavorare con gli uomini in tre diversi carceri.

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Il centro a Montebelluna

«Le persone con cui si interfaccia un centro come il nostro sono persone con caratteristiche estremamente eterogenee. Sono persone che possono presentare storie familiari e di vita difficili, ma la linea trasversale tra queste persone è tagliata in maniera determinante dalla cultura maschilista e patriarcale in cui tutti siamo immersi», precisa Moretti segnalando come già in premessa la Convenzione di Istanbul identifichi la matrice della violenza di genere come socioculturale.

La Relazione sui percorsi trattamentali per uomini autori di violenza nelle relazioni affettive e di genere della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere, indica – di fatto – tra i fattori culturali determinanti di matrice patriarcale e maschilista la legittimazione del potere dell’uomo sulla donna, l’imposizione della concentrazione delle funzioni di cura e affettive alla donna, una minore presenza della donna nei contesti sociali, politici e del lavoro, con una conseguente minore libertà economica della donna, una visione statica e rigida delle identità di genere maschili e femminili e delle relative funzioni sociali previste.

A questo proposito Moretti spiega come interfacciandosi con il centro l’approccio degli uomini autori di violenza nei confronti delle proprie azioni sia un approccio minimizzante se non di totale negazione delle stesse.

Il trattamento rieducativo inizia, infatti, con un lavoro incentrato proprio sulla totale assunzione di consapevolezza e di responsabilità da parte dell’uomo rispetto ai propri agiti, rinunciando ai tentativi di giustificazione.

Andare oltre il maschilismo e il patriarcato

Il rifiuto di mettere in dubbio e in crisi le più o meno radicate schematiche culturali di lettura e interpretazione della realtà e delle relazioni di genere, di cui la minimizzazione e la negazione sono frutto, è uno dei principali fattori di abbandono del percorso sin dal principio, segnala Moretti.

Al contrario, i percorsi dei centri per uomini autori di violenza sono finalizzati alla destrutturazione delle impostazioni maschiliste e patriarcali: «quello per cui noi lavoriamo è l’uomo rimetta tutte le forme di violenza, che acquisisca nuove abilità e che si sappia muovere in maniera differente nelle relazioni di genere proponendo schemi diversi rispetto a quelli precedenti». Questo il motivo per il quale nell’ambito viene evitata la denominazione spesso usata di “Centri per uomini maltrattanti”, in quanto sottintendente la violenza come caratteristica definitiva e destinica di uomo autore di violenza.

«La cultura in cui siamo immersi assegna uno scarso valore alle emozioni, alcune delle quali sino a poco tempo fa, se associate ad un uomo, assumevano una connotazione fortemente negativa. I bambini maschi erano [e sono spesso ancora] educati alla rimozione della paura, della tristezza, dell’empatia, riducendo le capacità relazionali e rendendo difficile la creazione di rapporti interpersonali autentici, solidi e appaganti. […] si può dire generalmente che la violenza è sempre frutto di emozioni non pensate e che più si è in grado di pensare le emozioni e meno si è violenti», si legge nella Relazione sui percorsi trattamentali per uomini autori di violenza nelle relazioni affettive e di genere.

Al contrario di altri Stati, in Italia non è prevista obbligatorietà del percorso trattamentale per uomini autori di violenza, segnala Chiara Moretti, fattore che affida la decisione di sottoporsi a tale percorso alla volontà del singolo. I centri lavorano dunque con chi autonomamente aderisce al programma e con chi invece viene inviato da autorità giudiziaria o servizi sociali, fattore che non costituisce comunque obbligatorietà ma che influenza fortemente l’autonomia della decisione per la possibilità di ottenere benefici di pena.

Che sottoporsi ad un percorso trattamentale possa essere una scelta finalizzata ad una “convenienza” in termini di pena e detenzione apre una finestra su una delle inevitabili criticità dell’esito positivo dei trattamenti. Tra le stesse professioniste e professionisti dei centri antiviolenza, con cui i per definizione i CUAV condividono la missione, l’istituzione e l’esistenza di tali centri rimane un dibattito ancora aperto. Professioniste che da decenni lavorano e combattono per la tutela delle donne sono scettiche sulla vera redenzione di un uomo autore di violenza in un lasso di tempo così “breve” se comparato ai secoli di tradizione culturale maschilista e patriarcale, di cui la violenza di genere è manifestazione.

D’altra parte, la Relazione sui percorsi trattamentali per uomini autori di violenza nelle relazioni affettive e di genere evidenzia come «l’esperienza della detenzione in quanto tale tenda a rinforzare ulteriormente i sentimenti di rabbia, la percezione di sé come vittima e il desiderio di vendicarsi nei confronti della donna, recidivano comportamenti violenti ed esponendola a rischi di escalation di violenza. […] gli autori di questo tipo di reati hanno un’alta probabilità di recidivare, per cui la sola detenzione senza trattamento non produrrebbe alcun effetto preventivo».

Il 30% degli uomini che il CUAV “Cambiamento maschile” segue annualmente abbandona il percorso nelle fasi iniziali, mentre il restante 70% lo porta a termine con l’ulteriore impegno, che il centro richiede, di due incontri di follow up l’anno per i tre anni seguenti. Tra gli uomini che terminano il programma, aggiunge Chiara Moretti, capita di frequente che molti chiedano di poter continuare a frequentare il gruppo di confronto esperito durante il percorso, un punto di riferimento e una dimensione di apertura cui lo stereotipo maschile non è culturalmente abituato e da cui è inizialmente spesso intimorito.

Il fatto che un uomo autore di violenza porti a termine il percorso trattamentale proposto dai CUAV non costituisce alcuna garanzia sulle azioni future dello stesso, ma è un dato di fatto che, come rileva la Relazione sui percorsi trattamentali per uomini autori di violenza nelle relazioni affettive e di genere, l’85% degli uomini che commettono violenza contro le donne torna, in assenza di un intervento riabilitativo, a commettere violenza di genere.

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