E come quei che con lena affannata,

uscito fuor del pelago a la riva,

si volge a l’acqua perigliosa e guata,

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,

si volse a retro a rimirar lo passo

che non lasciò già mai persona viva.

Questa è la prima similitudine della Commedia. A queste cose noi dobbiamo stare attenti. Dante non fa nulla a caso. Dante ha sempre un piano.

Se la prima parola in rima del suo poema è “vita” un motivo c’è. Se l’ultima parola di ogni cantica è “stelle” un motivo c’è. Se la prima similitudine del poema è la similitudine di un naufrago un motivo c’è.

Dante è appena uscito dalla selva oscura. Davanti a sé vede la salvezza: un colle illuminato dal sole. E si guarda indietro.

Proprio come il naufrago che, approdato alla spiaggia, si volta indietro e guarda il mare gonfio di pericoli. Rimira quel “passo” che nessuno mai è riuscito a superare. Perché il mare è un mare di morte. E in quel mare si muore. Muoiono tutti.

Pellegrino, naufrago, sopravvissuto

Psicologicamente il pellegrino che si salva dalla selva oscura è come il naufrago che arriva a toccare terra. Unico sopravvissuto. E proprio per questo, forse, Dante fa questo cammino per noi (“Nel mezzo del cammin di nostra vita”).

Roberto Filippini, New Islands, particolare.

Per aiutarci a superare sani e salvi quelle acque  selvagge. Lui ce l’ha fatta, per questo ce la dobbiamo fare anche noi. Il come, poi, sarà l’oggetto della Commedia.

Ma Dante non scrive la sua opera in una posizione “comoda”. Non è l’intellettuale che scrive col suo pc da qualche attico di Manhattan, come taluni si immaginano ormai che sia certi la figura dell’artista/intellettuale.

La Commedia è un’opera che Dante ha scritto in forse vent’anni, con la disciplina ferrea di 14233 versi, tutti endecasillabi, chiusi in terzine, con un sistema di rime tutto suo, che solo un genio, o un folle (o una mente innamorata), potrebbe concepire.

E tutto questo nel bel mezzo di una crisi. Nel pieno di un fallimento: come artista, come padre, come uomo politico.

Condannato a morte

“Immaginiamo la vita di un uomo braccato, vittima di un processo farsa, condannato a morte, che chiunque può legittimamente e impunemente uccidere (…). Immaginiamolo povero, senza più casa, senza denaro in tasca, ad attraversare valli e montagne con mezzi di fortuna, a piedi o sul dorso di un asino, guardandosi attorno circospetto, alla ricerca della benevolenza di un signore, di una corte che lo può ospitare.” Così scrive Marco Martinelli nel suo bel “Nel nome di Dante” (Ponte alle Grazie).

Se non abbiamo chiaro questo, non potremo mai capire il punto di vista di quel naufrago. Condannato a morte, non semplicemente esiliato come spesso si legge. Condannato a morte.

Prima di tutto viene condannato per “baratteria” (“baractarias, lucra illecita, iniquas extortiones”). In buona sostanza di avere intascato soldi pubblici (“receperunt pecuniam”), per favorire l’elezione di altri ufficiali pubblici (“quod ipsi…recepissent aliquis indebite, illecite vel ingiuste pro aliquibus offitialibus eligendis vel ponendis in civitate vel comitatu Florentie”) e, cosa ancor più grave, per essersi fatto pagare al fine di fare opposizione al sommo pontefice e al Carlo di Valois (“pro resistentia sui adventus”, per opporsi alla sua venuta).

Roberto Filippini, New Islands, particolare.

La dolorosa povertà

Il processo è in contumacia. Il 10 marzo 1302 viene condannato a essere bruciato vivo al rogo. Nel giugno dello stesso anno, la medesima pena viene estesa anche ai suoi figli maschi, compiuto il quattordicesimo anno di età. Questo è il naufragio della vita di Dante.

“Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare”, scrive Dante nel suo Convivio. Di nuovo la metafora del marinaio in mare.

Queste saranno le due piaghe a rendere la sua vita sempre più difficile: la condanna a morte e la “dolorosa povertade”. Una povertà che non gli permetterà nemmeno di potersi presentare degnamente al funerale di un uomo illustre (“Si dolga, dunque, si dolga la più grande stirpe dei Toscani, che brillava per tanto uomo; e si dolgano tutti gli amici suoi e i sudditi, la cui speranza la morte ha crudelmente percosso; tra i quali ultimi bisogna ch’io misero mi dolga, io che cacciato dalla patria e esule senza colpa, la mia sventura considerando di continuo me stesso in lui consolavo con cara speranza”).

Il punto di vista delle vittime

E questo, forse, oltre a permettere a Dante di fare un’esperienza spirituale senza precedenti, gli darà la capacità di porsi sempre dal punto di vista delle vittime, degli ultimi, di tutti i “naufraghi” come lui.

Sia essa Francesca (e chi mai avrebbe dato voce a un donna fedifraga, uccisa dal marito, in flagranza di adulterio?), o i figli di Ugolino (“Innocenti facea l’età novella/novella Tebe”), sia esso Romeo da Villanova (“e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe/mendicando sua vita a frusto a frusto, /assai lo loda, e più lo loderebbe”),  o sia addirittura lo straniero.

Sì, proprio così: persino lo straniero! Persino il pagano, l’uomo che viene da mondi lontani, da altre terre e altri mari, persino lo straniero diventerà oggetto di empatia e di immedesimazione per Dante.

Persino l’uomo che vive sulle rive dell’Indo, che vive “sanza peccato in vita o in sermoni”, diventa meritevole di attenzione, persino in lui Dante sente forte il suo sentimento di pietas (un sentimento caro a Enea, altro “profugo” d’altri tempi. E Dante lo sapeva bene).

Roberto Filippini, New Islands, particolare.

Muore non battezzato e sanza fede:

ov’è questa giustizia che ‘l condanna?

ov’è la colpa sua, se ei non crede?

Dante arriva a dichiarare che non ci può essere giustizia in un Dio che non considera questo uomo come suo figlio. Un uomo che non può dirsi cristiano solo per motivi di contingenza storica o biografica. E la risposta che viene dal cielo, è una risposta per noi spiazzante:

Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,

che saranno in giudicio assai men prope

a lui, che tal che non conosce Cristo

e tai Cristian dannerà l’Etiòpe,

quando si partiranno i due collegi,

l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.    

(Ma vedi: molti gridano “Cristo, Cristo!”, e il Giorno del Giudizio saranno molto meno vicini a Lui di chi non l’ha mai conosciuto; e questi Cristiani saranno condannati dall’Etiope, quando saranno divise le due schiere, una eternamente ricca e l’altra misera).

Il porto sicuro

Dante troverà poi il suo “refugio”, il suo “ostello” nel Casentino, in Lunigiana, in città come Ravenna e come Verona, alla quale dedicherà la sua cantica più bella. Il naufrago troverà il suo porto sicuro.

Troverà amicizia, troverà affetti, troverà gli amati libri, troverà uomini politici coraggiosi che sapranno dargli protezione.

Perché alla fine se abbiamo il più grande poema di tutti i tempi è anche per il coraggio di città come la nostra e di chi la governò.

E quando Dante saprà che la sua Firenze “matrigna” gli concederà la possibilità di un ritorno, per un’amnistia, a seguito del pagamento di un’ammenda e dopo l’umiliazione di una cerimonia di pubblica penitenza, Dante, sopravvissuto, profugo, ultimo, così scriverà ad un suo amico:

“Che, se per nessun’altra di tali vie in Firenze si può entrare, io in Firenze non entrerò giammai. E che per questo? Le spere del sole e degli astri, non potrò forse contemplarle dovunque? Non potrò in ogni luogo sotto la volta del cielo meditare i dolcissimi veri, se io prima non mi renda spregevole, anzi abietto al popolo e alla città tutta di Firenze? E neppure un pane mi mancherà”.

Roberto Filippini, New Islands, tecnica mista, 2018.

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