Corsi e ricorsi storici. Soltanto pochi giorni fa il basket veronese è tornato nella massima competizione italiana, la Serie A, grazie all’impresa di coach Alessandro Ramagli e dei suoi “ragazzini terribili” e in libreria arriva l’ultima fatica dell’infaticabile giornalista e scrittore Matteo Fontana, dedicata – guarda caso – a uno dei principali protagonisti dell’epopea d’oro della pallacanestro scaligera.

Dopo essersi a lungo dedicato, nella sua corposa produzione letteraria, al calcio, questa volta Fontana si tuffa con “carta, penna e calamaio” in quello che viene considerato il secondo o terzo sport per numero di appassionati in città: il basket, appunto. E lo fa narrando le vicende di un uomo, prima di tutto, e un atleta che purtroppo oggi non è più con noi, ma che ha lasciato un ricordo indelebile in tutti i fan della palla a spicchi. Stiamo ovviamente parlando del grande Henry Williams, scomparso a dir poco prematuramente nel 2018, che oggi però torna a “vivere” nei ricordi di tanti compagni di squadra, dirigenti, allenatori e giornalisti attraverso le pagine scritte come sempre con stile impeccabile dal giornalista veronese.

Fontana, coincidenza vuole che soltanto pochi giorni fa il basket a Verona abbia regalato delle gioie immense agli appassionati gialloblù, cogliendo una promozione in Serie A che mancava da vent’anni. Lei però nel suo libro ha raccontato un periodo molto preciso, quello in cui negli anni Novanta giocò per la Scaligera un giocatore che sembrava provenire da un altro pianeta…

«Sì, un periodo che ha rappresentato il picco della passione per il basket a Verona. Ci fu poco prima la grande epoca della ricchissima Scaligera targata Glaxo, quella per intenderci di Dado Lombardi in A2 e della Coppa Italia del ’91 con Alberto Bucci in panchina. Nel mio libro, però, racconto un po’ quello che viene descritto nel finale di “The Last Dance” (la docuserie che racconta l’epopea di Michael Jordan ai Chicago Bulls, ndr), in cui il più grande giocatore della storia di questo sport afferma che in determinati contesti basta una piccola scintilla per accendere un grande fuoco, come successe proprio con lui nella città dell’Illinois.

Ecco, per Verona quella scintilla fu Henry Williams, che nel gennaio ’93 arrivò in una Scaligera che era retrocessa in A2 e che per motivi aziendali aveva visto dei disinvestimenti da parte della Glaxo. Quello che doveva essere un progetto sportivo basato sulla ricostruzione a partire dai giovani – e in effetti c’erano giovani di valore come Alessandro Frosini, Davide Bonora, con Franco Marcelletti in panchina – con l’arrivo di Williams si trasformò in qualcosa di improvvisamente esaltante.

Furono anni importanti, che poi portarono velocemente a creare l’humus, diciamo così, per quello che ancora rimane il successo europeo più bello della nostra città (a cui si è aggiunto nel 2016 la Challenge Cup di volley): quello della Coppa Korac del ’98, anche se con altri protagonisti…

«Se non ci fosse stato il periodo precedente con Williams forse non ci sarebbe stata la grande MASH di Mike Iuzzolino. Fra l’altro la questione su chi sia stato più “grande” fra Williams e Iuzzolino per certi aspetti ricorda la “querelle” fra Coppi e Bartali. In realtà furono due grandi idoli, giustamente entrambi ricordati come fra i più grandi atleti di pallacanestro mai passati qui a Verona. Chi fa parte della mia generazione, dei nati cioè a metà degli anni Settanta, ha forse un legame più forte con Williams, anche perché lui portò con sé qualcosa di improvviso, inaspettato. Arrivato con il sorriso direttamente dagli Stati Uniti per tappare il buco creato dall’infortunio di Corey Crowder, divenne in pochissimo tempo un idolo. Era amato da tutti, soprattutto dai ragazzini, che volevano sempre imitarlo. Si sognava, all’epoca, di poter giocare come Williams, che era anche un giocatore solare, espansivo, al contrario proprio di Iuzzolino, più chiuso.»

Il play, d’altronde, era un po’ il corrispondente del numero 10 nel calcio: portava la fantasia…

Matteo Fontana con il suo libro all’interno della libreria “Gulliver”

«Sì, ma Williams faceva vedere delle cose che non si erano davvero mai viste a Verona prima. Come tiri da tre da otto, nove metri di distanza dal canestro. Ricordo un episodio, legato a una partita di “vecchie glorie” che si fece nel 2006 e che lo vide fra i protagonisti. C’erano un po’ tutti i grandi giocatori del basket veronese, ma quando lui chiuse il match con questa serie di tiri da tre, il palazzetto sobbalzò. Ecco, lui era questo: era capace di emozionare. E questo libro nasce perché parlando con tante persone, nei momenti di convivialità, spesso si torna a ricordare quei momenti di pura emozione.»

E quindi cosa si deve aspettare di trovare, il lettore, all’interno della sua opera?

«Mi sono affidato principalmente ai narratori e ai protagonisti di quel periodo: giornalisti, direttori sportivi, giocatori. E quindi ai racconti di Franco Marcelletti e Andrea Fadini, ma anche di Alessandro Boni, Davide Bonora, Alessandro Frosini, Roberto Dalla Vecchia, Jack Galanda. E poi ancora ai racconti dei “maestri”, dalla straordinaria competenza, come Mario Poli, Renzo Puliero, Alessandro D’Errico, Paolo Favarin, Stefano Alfonsi e Luca Chiabotti che seguiva per la Gazzetta dello Sport che coniò quel marchio dell’orologio con l’anima. La narrazione passa attraverso i loro ricordi e la cronaca. È un racconto in cui l’emotività è prevalente.»

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